La prima
volta che sentii parlare seriamente dello scautismo fu pochi giorni dopo
il 25 luglio 1943.
Appena caduto il fascismo, monsignor Faggioli, il mitico fondatore dell’ASCI
in Emilia-Romagna nel 1917, e alcuni vecchi scout pensarono subito di
far rinascere lo scautismo a Bologna, ma la situazione bellica che stava
precipitando lasciò poco tempo e spazio ai progetti: vennero i
bombardamenti sulle città e infine l’armistizio dell’8
settembre che chiuse ogni possibilità.
A me rimase una copia della vecchia edizione di « Scautismo per
ragazzi », tradotta dal conte Mario di Carpegna, la cui lettura
mi rincuorò durante i lunghi mesi della Resistenza e mi fu anche
oltremodo utile in quelle circostanze con i suoi consigli sulla ... vita
all’aperto.
Nella primavera del 1945, pochi giorni dopo la liberazione, potemmo ricomporre
il progetto scout fondando presso il convento di San Giuseppe quello che
doveva diventare il famoso Bologna 16. Il convento dei padri cappuccini
era stato in parte distrutto dai bombardamenti: per la sede dovemmo quindi
accontentarci di alcuni locali recuperati in una villetta confinante,
per metà abbattuta da una bomba.
Salendo le scale, arrivati al primo piano, occorreva girare a destra per
entrare nelle uniche due stanze utilizzabili; se invece si girava a sinistra
si correva il rischio di ritornare al piano terreno, precipitando su un
mucchio di macerie. Dalle macerie dell’ala distrutta del convento
recuperammo il legname di mobili sfasciati per costruire l’arredamento
della sede. Una bomba caduta nel giardino pubblico aveva divelto un abete:
lo raccogliemmo per scolpire un magnifico totem che ancora conservo gelosamente
e molti m’invidiano. Le cassette per il materiale le recuperammo
in collina, durante le uscite, svuotandole dei proiettili di mortaio.
Qua e là si trovavano ancora dei depositi abbandonati di quel materiale.
Anche per metterci in uniforme scout dovemmo arrangiarci, aguzzare l’ingegno
e superare molte difficoltà: mancava la stoffa e mancavano anchei
denari, In un primo tempo rimediammo con vecchie camicie militari ritrovate
in una caserma abbandonata e ritinte da noi artigianalmente; i calzoni
corti li ricavammo adattando e tinteggiando di blu una partita di mutandoni
militari di tela grossa. Mancavano anche le calze e per poter indossare
senza danni i grossi scarponi chiodati militari, comperati usati al mercatino,
dovemmo imparare a fasciare le estremità inferiori con le cosiddette
« pezze da piedi »:occorreva una notevole abilità nel
sistemare le pieghe in modo che non dessero fastidi durante il cammino.Per
il cappellone, il capo di vestiario più caratteristico e ambito,
fummo fortunati: alcuni li recuperammo da qualche zio che era stato scout
prima del 1928, gli altri con grandi risparmi, riuscimmo a comperarli
da una ditta di Biella che aveva ripreso la lavorazione. Il cappellone
ci sembrava un elemento così caratteristico dello scautismo da
non poterne fare a meno. « Nudi ma col cappellone » avrebbe
potuto essere uno slogan scout dì quei tempi eroici.
Con alcuni
teli mimetici mod. 29 costruimmo le nostre prime tende e affrontammo anche
i temporali più violenti. Tre mesi dopo la fine della guerra eravamo
già in grado di organizzare il primo campo estivo sull’Appennino.
I viveri erano ancora tesserati e quindi ogni partecipante, oltre alla
quota, dovette versare, anche un certo quantitativo di farina, di zucchero,
di olio, ecc. Come località di campo, l’A.E. regionale offrì
un suo terreno con casa, nei pressi di Monzuno, ad appena due chilometri
dalla linea su cui si era fermato il fronte per tutto l’inverno.
La casa si era fortunatamente salvata perchè era stata raggiunta
dagli alleati e un monte l’aveva protetta dalle cannonate tedesche.
Su quel territorio era infuriata la battaglia per mesi, per cui fummo
caldamente consigliati di rimanere entro un ridotto spazio di bosco ben
delineato e già bonificato; oltre ai confini segnati era possibile
incappare in qualche mina o proiettile inesploso. Squadre specializzate
di militari e di civili stavano ancora operando per bonificare i terreni
circostanti dagli esplosivi e anche per recuperare i cadaveri dei soldati
e le armi rimaste nei boschi.
Per raggiungere
la località del campo percorremmo una decina di chilometri a piedi
dalla stazione di Vado che era stata appena rimessa in esercizio. Ai bordi
della strada erano disseminati rottami di veicoli, bossoli vuoti, cassette
sfasciate per munizioni e quanto altro può abbandonare un esercito
in rapido movimento. A poca distanza dalla strada, pendente a cavallo
di un davanzale di una casa colonica semidiroccata, giaceva ancora il
cadavere di un soldato tedesco che nessuno aveva avuto il coraggio di
togliere a causa delle mine sepolte attorno all’edificio.
Il campo si svolse con grande entusiasmo e successo. L’esperienza
ci consigliò di affrontare al ritorno il problema delle tende.
Per questo prendemmo contatto con alcuni militari polacchi, che erano
stati scout prima della guerra, e per mezzo loro ottenemmo, nell’inverno
successivo, un certo numero di piccole tende da deserto che subito soprannominammo
« polacchine », un nome che a Bologna è rimasto fino
ai giorni nostri per indicare quel modello. Andai con uno scout a recuperarle
ad Ancona. . Viaggiammo con un camion militare polacco che andava per
altre ragioni in quella città e sul quale potemmo caricare fino
a Faenza il prezioso dono. Un frate cappuccino, alcuni giorni dopo, trasportò
le tende a Bologna con un barroccio trainato da un mulo. Prima di arrivare
a Faenza, il camion deviò verso Bagnacavallo per ritirare della
grappa presso una distilleria che era riuscita a salvare alcune cisterne.
Ci promisero una buona bevuta per rimediare al gran freddo patito viaggiando
sul cassone del camion ma la prospettiva andò a monte perchè
proprio quella mattina i proprietari della distilleria, facendo un’ispezione
alla grande botte di cemento, avevano trovato ... un tedesco morto che
galleggiava sull’alcool.
Lo scautismo che ci avevano insegnato sosteneva di essere un metodo educativo
« per formare la qualità del buon cittadino per mezzo della
vita dei boschi » e perciò noi organizzavamo più uscite
possibile e con qualsiasi tempo, Il materiale più pesante del reparto
stesso lo trasportavamo con un carretto a mano, alternandoci a turno tra
le stanghe. Ovviamente lo spettacolo poteva suscitare qualche commento
salace. Anche la sola presenza degli scout in molti paesi, soprattutto
della campagna, ove dominavano con la paura forze politiche poco disposte
a tollerare chi non la pensava come loro, era spesso motivo di beffeggiamenti,
che non ci turbavano però più di quel tanto. Spesso venivamo
ironicamente indicati come i «balilla del Papa». Di notte
poi non era raro essere svegliati da qualche scarica di mitraglia più
o meno vicina: niente paura, sapevamo che era solo l’avvertimento
di un contadino dei dintorni insospettito da qualche rumore sospetto o
solo dalla presenza delle nostre tende nel bosco o lungo il fiume.
In settembre l’ASCI organizzò un convegno capi a Roma. Decidemmo
di partecipare in tre. Le ferrovie erano malandate e così impiegammo
ventotto ore per arrivare nella capitale e riuscimmo a partire solo salendo
su un convoglio destinato ai profughi diretti al sud. Per viaggiare occorreva
infatti una speciale autorizzazione.
Facemmo così conoscenza con «i grandi capi» di Roma
con i quali avremmo percorso poi con entusiasmo tanta strada insieme:
una strada lunga fino ad oggi.
Tanti e anche di più anni di vita scout li auguro a voi.
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