(Mimmo Sorrentino)
1921 (21- 30 agosto) Val Fondillo
Erano trascorsi solo
cinque anni dalla nascita dell’ASCI e l’associazione volle fare una prima verifica
dello spirito e della tecnica dei suoi primi “riparti”. Fu così che circa
settecento scouts si attendarono nelle famose tende “Bucciantini”, lungo il
Fondillo, in quella valle che all’epoca non era ancora parco nazionale (lo
diverrà nel 1923) ma era ancor più selvaggia di adesso.
Settecento scouts
sembrano pochini per le cifre che siamo abituati a contare oggi. Ma nel 1922
l’ASCI censiva appena 2.125 esploratori, quindi i presenti al Val Fondillo
rappresentavano un terzo della Branca, una percentuale di poco superata solo
nel 1954 e appena eguagliata nel 1983.
Le autorità governative e
la federazione “Pro Montibus” avevano favorito la manifestazione proprio per
propagandare il progetto di costituzione del parco. Selvaggia e... lontana la
Val Fondillo, difficile da raggiungere con quello che era il mezzo di trasporto
abituale, il treno, perché la stazione più vicina distava 25 chilometri dalla
valle. Anche se le autorità militari avevano concesso aiuti oltre che per le
vettovaglie, anche per i trasporti, gli scouts per arrivare sul posto avevano
viaggiato giornate e nottate intere (i treni “accelerati” erano molto lenti).
I contingenti erano
organizzati per regione e le cucine pure. Furono svolte gare tecniche, giochi
ed escursioni. Salvatore Salvatori che all’epoca era capo “riparto”, si guadagnò
una medaglia per aver salvato una squadriglia rimasta incrodata sul monte
Dubbio. La segheria che sta all’imbocco della valle e che oggi ospita il centro
di accoglienza del parco, era in funzione, così come la “decauville”, i piccoli
vagoncini su rotaie che arrivavano, più o meno, fin sotto l’Acqua Sfranatara
facilitando il trasporto del materiale. L’ASCI non aveva ancora il suo inno
nazionale, né vi era ancora una tradizione di canti scout conosciuti da tutti.
Questa constatazione spinse la sede centrale a rimediarvi, dando inizio ad una
vera e propria tradizione associativa che si trasmise poi anche all’ASCI
risorta dopo la liberazione.
Terminato il campo, gli scouts si trasferirono per un
soggiorno di tre giorni a Roma, nel Collegio S. Giuseppe per partecipare
ai festeggiamenti del cinquantenario della Gioventù di Azione cattolica durante
cui vi furono dei disordini provocati dal divieto improvviso della polizia di
effettuare un corteo dal Colosseo al Vaticano, programmato da tempo. I giovani
cattolici, la domenica 4 erano convenuti di prima mattina al Colosseo per la
Messa programmata, senza sapere del divieto. Trovarono gli ingressi sbarrati
dalle guardie regie e decisero lì per lì di andare lo stesso in Vaticano, raggruppati per associazioni («invece di un
corteo se ne improvvisarono dieci, quindici, venti!»). La polizia aveva
predisposto diversi cordoni lungo il percorso e furono inevitabili gli scontri
con feriti, arresti, «bandiere stracciate».
Mario di Carpegna si
compiacque notare che «gli Esploratori nostri, abituati ad una disciplina ferma
e calma sono rimasti completamente immuni» dagli episodi di protesta che egli
giudicava inutili e puerili.
Tornando al campo, è
interessante leggere come assieme al compiacimento per la riuscita di questo
primo esperimento, vi fu un ampio ed appassionato dibattito sull’utilità di simili
campi di massa.
Carpegna per primo si
disse contrario perché “poco scautistici, poco istruttivi”. Cosa vi hanno
imparato gli scouts da questo campo, chiedeva. «Ben poco. Non hanno imparato
nemmeno a sopperire alla deficienza della paglia sotto le tende, con la ricchissima
riserva di foglioline secche di faggio (...) Lo Scautismo vuol educare ciascun
soggetto allo spirito d’iniziativa, al trarsi d’impaccio in ogni occasione». Né
simili campi potevano considerarsi utili alla preparazione premilitare (era un
“pallino” dell’epoca, ancora vicina al primo conflitto mondiale) come qualcuno,
forse gli sponsor governativi, sperava. «Noi ci vantiamo di dare al ministero
della guerra, senza nessuno sforzo, seguendo solo il semplicissimo programma
scautistico - antimilitaristico per eccellenza - delle giovani reclute
magnificamente preparate al servizio militare e alla guerra». Mario Mazza, il
“commissario ispettore” che era stato tra gli organizzatori del campo manifestava
l’opinione opposta auspicando addirittura che di campi nazionali se ne
facessero non uno ogni quattro anni, come annunciato dallo “Scout Italiano” (la
rivista per i ragazzi) dalla Giunta centrale,
ma tutti gli anni. Sulla linea contraria si schierarono a fianco di Carpegna,
con argomenti diversi d’indole metodologica, don Carlo Rusticoni, don Emilio
Faggioli (assistente regionale dell’Emilia-Romagna) e, con un intervento al
calor bianco, il romano Giulio Cenci. Ma anche Leonardo Peyton, sacerdote scout
inglese, commissario internazionale, ricordava la contrarietà di Baden-Powell.
Insomma, a soli cinque
anni di esistenza, l’ASCI mostrava di avere idee chiare sui fondamenti
pedagogici dello scautismo.
1925 (8 - 18 settembre)
Marta, Lago di Bolsena
Questo secondo campo
nazionale si aprì il giorno successivo alla conclusione del grande pellegrinaggio
internazionale degli scouts cattolici organizzato dall’ASCI per il Giubileo.
Accampati sulle rive del
lago, di fronte alla verde isola Martana, fu un campo di ripiego, un’adunata
nazionale a scartamento ridotto, come scrisse a suo tempo “L’Esploratore”, la
rivista (anzi il “bollettino”) dei capi, anche se era stato chiamato “Gran
Campo” e “Campo dei Campi”.
Lo scopo era stato
infatti di offrire agli scouts pellegrini di ritorno alle proprie case un
periodo di riposo e di serenità. Obbiettivo raggiunto.
Anche questo campo fu
organizzato per contingenti regionali e vide per la prima volta la
partecipazione dei nautici i quali non mancarono di visitare l’isola Bisentina,
ridentissimo giardino in mezzo al lago.
Il distintivo del campo
volle rappresentare i simboli eucaristici del miracolo di Bolsena, anche a
ricordare l’occasione giubilare che aveva favorito l’incontro.
1946 (7 - 10 settembre) Roma,
Villa Molinario
Dopo il campo del 1925 si
addensarono sempre più minacciose le nubi dello scioglimento dell’ASCI, che
avvenne in due riprese, nel 1927 e, definitivamente, nel 1928. Poi seguì il
periodo ancor più buio della guerra con le sue immani distruzioni. La
liberazione cominciata dalla Sicilia nell’estate del 1943 stentò quasi due anni
ad arrivare fino al Nord, dove si concluse con la resa dei nazisti nell’aprile
del 1945.
Ci volle un bel coraggio
a convocare il grande raduno nazionale già nel settembre dell’anno successivo.
Se difficili e lenti erano stati i viaggi del 1921, non meno difficili e
rischiosi furono quelli del 1946 per attraversare un’Italia devastata.
Il campo fu breve,
preceduto dal primo Consiglio generale che dette le direttive della rinascita.
Fu seguito da una
permanenza facoltativa fino al 13 settembre per visitare Roma e dintorni. Vide
la presenza di circa 600 scouts sotto la direzione di Mario Mazza.
Si trattò di nuovo di una
verifica a tutto campo dello spirito e della tecnica con cui stava rinascendo
l’associazione (a quel tempo il reparto
comprendeva anche i lupetti).
E fu anche una grande
occasione per incontrare festosamente il papa Pio XII.
Con una marcia lungo
l’antica Via Appia, il campo lo raggiunse nella sua dimora estiva a Castel
Gandolfo.
E il papa li ricevette
nei giardini passando sotto un arco di trionfo fatto con le fiamme e i guidoni
innalzati dagli scouts.
L’Esploratore (è
l’antenato di “Scout - Avventura”), pubblicò durante il campo ben tre numeri
speciali.
Il simbolo dell’incontro
(un disegno di Pierre Joubert) volle
mettere in risalto il valore e l’importanza sia della squadriglia, sia quella
della vita all’aperto.
Viene ricordata, ed è la
prima volta, la presenza di scouts francesi, inglesi, svizzeri e sammarinesi.
1951
(13 - 22 agosto) Vallonina di Leonessa (Monte Terminillo)
Il 1951 è un anno di attività intensa come ci ricorda la
canzoncina coniata per il campo nazionale (è un’altra “prima volta”) o, più
esattamente, per il “Jamborette” come lo si chiamò in omaggio alla recente
terminologia internazionale.
Il campo, fu diretto da Salvatore Salvatori, allora commissario
centrale alla Branca esploratori, coadiuvato
da Pietro Carbonara, fra Fedele Bressi e Gino Armeni. Vide la presenza di 1.018
scouts e capi provenienti da 13 regioni (mancavano Piemonte, Lombardia, Veneto,
Romagna e Campania). 27 furono gli ospiti e 527 i visitatori. Tra questi,
Salvador Fernandez del bureau internazionale scout.
Le Unità partecipanti, pur essendo organizzate per regione,
ebbero piena autonomia di vita e poterono fruire di spazi ampi per accamparsi.
Tuttavia le attività proposte dalla direzione furono molto coinvolgenti al
punto da lasciare ben poco tempo per altro. Furono bandite quattro gare.
La gara dei canti, il 15 agosto, che fu combattutissima
tanto da rendere difficile alla giuria guidata da Nolfo di Carpegna emettere il
proprio verdetto. Vinse il Merano 3°.
Il 17 fu la volta della gara delle costruzioni che, per
estrazione a sorte aveva chiesto l’approntamento di un’edicola sacra, tempo
sette ore. Furono primi a pari merito gli Scoiattoli del Roma 17 e le Tigri del Taranto 1°.
Il 20 fu protagonista il pane, mettendo
in serio imbarazzo Fausto Catani e compagni che, dopo ore di assaggi e
controassaggi decretarono la vittoria dei Falchi del Bolzano 2.
L’ultima gara, quella dell’angolo di squadriglia, era
cominciata praticamente il primo giorno di campo. Ci furono tre selezioni
successive e le finali se le aggiudicarono le Aquile dell’Avezzano 1°. Monass e
i suoi giurati, per arrivare a questo giudizio avevano dovuto peregrinare per
ore ed ore, fino a notte fonda.
La sera del 16 le due pire del fuoco da campo furono accese,
l’una da monsignor Massimiliani, il vescovo “scout” di Civitavecchia, con i
tizzoni del campo nazionale del 1946; l’altra da Salvatori con quelli del
Jamboree appena conclusosi in Austria. Questi tizzoni erano stati portati al
Jamborette dai Cobra del Roma 31, arrivati da Bad-Ischl il 15 a notte fonda. Solo
loro nel contingente Jamboree si erano ricordati di farlo e per questo
guadagnarono l’onore di issare il proprio guidone sull’antenna centrale.
I capi ebbero anche occasione di incontrarsi per scambiare
esperienze e suggerimenti, in particolare sui grandi giochi al campo.
Fu proprio durante il Jamborette che fu annunciata
l’approvazione del progetto di costruzione della strada che oggi collega
Vallonina al Terminillo. Un annuncio che non entusiasmò troppo l’uditorio.
1954 (18 - 25 luglio) Valfondillo
Indetto per celebrare il decennale della rinascita
dell’associazione, fu il più numeroso di tutti i precedenti: oltre 3.500 i
partecipanti.
Diretto anche questo da Salvatori,
padre Agostino Ruggi d’Aragona ne fu l’assistente ecclesiastico.
Entrambi erano stati al primo campo del ’21. Ruggi all’epoca
non vestiva ancora la veste bianca domenicana ma era a capo del suo “Roma
quinto”. Ad entrambi era rimasta nel cuore la nostalgia di quella prima avventura
in luoghi tanto singolari.
Assunse un significato particolare la presenza dei reparti
ASCI di Trieste (tornerà all’Italia il 5 ottobre di quell’anno), del Cairo e di
Porto Said.
Questa volta fu accentuato il carattere di campo dei reparti.
Infatti, il campo nazionale vero e proprio occupò una sola settimana, dal 18 al
25 luglio, mentre i servizi furono pronti fin dal 12 e rimasero in funzione
ancora fino al 4 agosto, dando la possibilità alle unità di svolgere il loro
normale campo estivo.
Nella settimana centrale era stato chiesto ai reparti la
partecipazione alle cinque manifestazioni ufficiali.
Il 18 pomeriggio, un grande gioco portò le squadriglie al
pianoro del quartier generale, verso l’imboccatura della valle, dove erano
sistemati le antenne delle bandiere. Si trattava di formare delle catene di sei
squadriglie di nazionalità o regioni diverse e correre al luogo della riunione.
Cosa apparentemente semplice, se non si tiene conto che
furono ben poche le squadriglie disposte a farsi “catturare” invece di
catturare e che la corsa, data l’estensione del campo, non dovette essere mediamente
inferiore ai tre chilometri.
Il giorno 20 fu interamente occupato dal grandioso gioco che
ripeté le gesta di Custer al Little Big Horn. La grande massa di indiani e
confederati invase larghi tratti della valle e della provinciale fin verso la
Camosciara e sotto le pendici del Marsicano. Un evento certamente rimasto a
lungo nei ricordi e nei racconti di chi vi prese parte. L’esito dello scontro
confermò la storia, ma Enrico Dalmastri osservava «chi ha vinto non importa
saperlo, perché: in un grande gioco il risultato più importante non è la
vittoria, ma lo stile con cui si è giocato».
Due sere dopo, il 22, due pire enormi illuminarono la scena
del fuoco da campo su cui si alternarono le danze regionali e i canti di tutti.
Il 24, il sole era appena scomparso dietro le cime boscose
del monte Dubbio, quando padre Ruggi, con il suo tono di voce sommesso guidò la
riflessione degli scouts sul primo articolo della Legge.
E finalmente la mattina del 25 il grande spiazzo del quartier
generale vide il campo radunato attorno all’altare per la Messa di chiusura celebrata
da monsignor Pignedoli. Per tutti noi era rimasto “don Sergio”, il primo
assistente centrale dell’ASCI risorta ed uno degli artefici della ripresa. Da
qualche anno era in Bolivia, Nunzio apostolico, ed era tornato a rivedere i
suoi scouts. Nel salutarli prima di
riprendere la sua strada disse loro: «più sono lontane le tende, più siano
vicini i cuori».
Al pomeriggio, la cerimonia di chiusura e l’ultimo ammaina
bandiera dai pennoni centrali dove per otto giorni, a fianco del tricolore, avevano
sventolato le bandiere della Francia e dell’Inghilterra.
Durante la settimana centrale, oltre a queste attività
“ufficiali”, ve ne erano state altre
“facoltative”: alcuni corsi tecnici (pionieristica, natura, topografia, hebertismo con la partecipazione di Gigi Mosca e i suoi
allievi dell’ISEF), alcune gare (cottura pane, segnalazioni, canto, danze
regionali in costume e danze scout), le escursioni al monte Marsicano e alla Camosciara.
Ai capisquadriglia e ai capi furono
riservate alcune occasioni di incontro.
Il sesto campo nazionale fu opera di Gino Armeni,
commissario centrale alla Branca esploratori dal 1959, coadiuvato da
Enrico Dalmastri e dalla sua pattuglia nazionale. Presente anche l’assistente
centrale di Branca, monsignor Antonio Macculi.
Il campo accolse 3.472 scouts italiani e 74 tra inglesi e francesi in un pianoro a castagneto sovrastante
Castel del Piano, appunto “Le Piane”, sulla via per la vetta dell’Amiata.
Su quella vetta, l’anno prima gli scouts toscani avevano
innalzato la statua della Madonna degli scouts. Il campo il banco di prova dei
grossetani, guidati da Valfredo Veri e padre Ugolino, che assicurarono in loco la minuziosa e faticosa preparazione del
campo, e poi curarono egregiamente il servizio “mercato”. La mattina, sul
mezzogiorno ogni reparto portava all’intendenza la sua cesta. Oltre 120 rovers,
in prevalenza toscani assicurarono il regolare funzionamento del tutto.
C’era anche un emporio per attrezzi e materiale vario,
nonché uno spaccio alimentari fisso per supplire a qualche dimenticanza nelle ordinazioni
mattutine.
A differenza del campo precedente, dove l’approvvigionamento
idrico era assicurato dal Fondillo con le sue sorgenti affluenti, sull’Amiata
l’acqua si dovette prelevare dall’acquedotto del Fiora con un impianto
idraulico sofisticato e superando non poche difficoltà tecniche e...
burocratiche.
La preparazione remota fu capillare quanto poteva essere
scrupolosa la cura dell’organizzazione, una delle caratteristiche di Gino Armeni.
Una caratteristica del campo fu la presenza alle due
cerimonie pubbliche (l’inaugurazione e la Messa) di molte personalità civili,
di governo e ecclesiastiche: un vero record. Giulio Andreotti, era allora
ministro della Difesa, arrivò con due elicotteri ma dovette atterrare lontano
dal campo perché il polverone sollevato dalle pale degli aerei resero
impossibile la manovra.
Già, la polvere! una polvere fina, di colore marrone che
aumentava man mano il campo si riempiva, e s’infilava dappertutto, tanto da ricordare
la “poussière” proverbiale del Jamboree di Moisson.
Nel lancio dell’impresa si era detto che i reparti sarebbero
stati liberi di fare il loro campo estivo normale essendo vincolati soltanto
alla partecipazione di quattro eventi quali, la cerimonia inaugurale del 18
luglio, la Messa del 22, il fuoco da campo del 26 e la cerimonia di chiusura il
27.
Certo il contesto di questo campo “normale” sarebbe stato
ben diverso da quello consueto e non si sarebbe potuto non tenere conto della
vicinanza di tanti altri reparti e della particolare atmosfera Jamboree che si
sarebbe creata e che poteva, anzi doveva, essere sfruttata.
Oltre tutto la disposizione stessa del campo, molto più
concentrata che non in Val Fondillo, favoriva i contatti tra le varie unità
delle diverse regioni che erano state sapientemente mischiate in ciascuno dei
sei sottocampi.
E così fu: numerose furono le attività in comune fra vari
reparti: le immancabili gare (ponti, segnalazioni, cucina) le giornate di
specializzazione (espressione, attività fisica, natura). Una giornata di
specializzazione nautica portò molti scouts in crociera attorno all’isola
d’Elba a bordo di tre dragamine (Larice, Pino e Faggio).
Il fuoco da campo, particolarmente suggestivo per l’arrivo
silenzioso delle migliaia di scouts al cerchio illuminato da due riflettori e
per il livello delle presentazioni, fece il paio con le “arene” diurne del 22
alle quali parteciparono anche molti genitori venuti per la giornata di visita.
Pure suggestiva la conclusione della giornata mariana del 24
dedicata al Concilio ecumenico svoltasi autonomamente nei reparti e conclusasi
in comune alle 21,30 quando in ogni parte del campo si accesero i flambeau che
illuminarono la marcia, prima delle squadriglie, poi dei reparti e dei
sottocampi recitanti il rosario e la preghiera “dello scout a Maria“ che papa
Giovanni XXIII aveva composto per loro.
Ovviamente vi furono le escursioni su uno dei tanti, 35,
itinerari suggeriti e nessuno mancò di andare a salutare la Madonna degli
scouts sulla vetta del monte.
Il grande gioco che iniziò nel primo pomeriggio del 20 con
un lancio aereo di messaggi che sbagliava completamente il bersaglio. Ma i
messaggi spuntarono lo stesso da... terra. Lo scopo finale di questa specie di
corsa ad ostacoli fu la costituzione di equipaggi di 21 scouts assortiti
secondo regole complicatissime (per regioni, colori di fazzoletto, nazionalità,
stazza complessiva: 1,260 chili i vincitori!).Terminò a Castel del Piano alla
presenza di capi e autorità, molto interessate allo spettacolo inconsueto. Il
campo fu così rovistato in ogni angoletto più remoto e i ragazzi si sentirono
per questo più a casa loro.
Inevitabilmente arrivò il giorno della chiusura, il 27.
Gino, ricordando il motto del campo “gioiosamente insieme, per nuove
conquiste”, disse che era stata realizzata la prima parte e che restava quindi
da operare le nuove conquiste da parte dei singoli, delle squadriglie, dei
reparti e dell’intera associazione.
Il campo aveva avuto il suo bravo inno ufficiale e un altro
“ufficioso”. Ma quello che divenne più popolare, cantato senza posa, fu quello
antico della prima ASCI toscana che tutti impararono presto a conoscere con il
ritornello “Di Toscana siam la balda... “ (presto ritradotto in “di Toscana
siam la lagna...”).
Durante il campo comparvero quattro numeri speciali de
“L’Esploratore” che venivano stampati a
Grosseto grazie al via vai della “Carolina-press”, la R4 che la Renault ci
aveva prestato gentilmente. Inoltre Gianni Conforti, Commissario centrale per
le pubbliche relazioni, assicurò un notiziario radio giornaliero, Asci-Rama.
Un evento luttuoso colpì il campo: fra Fedele Bressi lo
scout del Lanciano 1°, al secolo Giovanni, che per rimanere, appunto, “fedele”
alla sua promessa dopo lo scioglimento fascista aveva indossato l’abito
francescano, tornò silenziosamente alla Casa del Padre il 19 luglio,
accasciandosi sul volante dell’auto, colpito da un infarto mentre scendeva in
paese.
1974 (21 - 31 luglio)
Cura di Vetralla, Lago di Vico
L’ASCI era divenuta Agesci da poche settimane e si pose subito
il problema se attuare o no questo campo nazionale deciso dal Consiglio Generale
del 1973. Erano passati 12 anni dall’ultimo campo nazionale e la Branca Esploratori
(Eugenio Alacevich ne era il capo e don Nunzio Gandolfi l’assistente ecclesiastico)
era ben decisa a realizzarlo perché voleva verificare l’impatto effettivo
delle recenti riforme della progressione personale e sull’impresa permanente.
Ma l’AGI non aveva una tradizione del genere, motivo per cui fu duro superare
le sue resistenze. La decisione finale - come spiegava la responsabile Paola
Pongiglione - fu che la Branca guide, che ancora era separata da quella esploratori,
non avrebbe partecipato come tale. Ciò non significa che le Guide di quei
reparti che cominciavano ad essere misti non siano state presenti. Perciò
fu questo il primo campo misto della storia Agesci. Era presente anche un
riparto sperimentale di Esploratrici che vestivano l’uniforme grigia dei ragazzi
ed erano censite nell’ASCI.
Com’era ormai consueto, i reparti ebbero la possibilità di
campeggiare a partire dal 18 luglio e di fermarsi fino al 4 agosto.
Il luogo prescelto erano i meravigliosi querceti che,
dominati dal monte Venere, si estendono da Cura di Vetralla fino al lago di
Vico, una zona destinata a divenire parco regionale. Per questo fu data molta
importanza alla preparazione “ecologica” degli scout, nella più genuina tradizione
scout.
I partecipanti furono 5.000 e le attività furono articolate
in sei sottocampi: campismo (due, “Brownsea” e “Olympia”), espressione, natura
e scoperta dell’ambiente, tecniche, nautica e meteo.
Ciascun sottocampo raggruppava svariati temi di impresa ed
offriva alle squadriglie dei punti di incontro con le attrezzature adatte alla
loro realizzazione.
Ogni riparto poteva spostarsi anche negli altri sottocampi
per provare attività diverse. Il campo nautico, situato sulle rive del lago di
Vico, fu il più importante mai realizzato prima.
Il distintivo del campo riassume, in allegra confusione, i
titoli dei sottocampi e, nella raffigurazione della rosa dei venti, ricorda il
motto “da tante vie un solo sentiero”.
I reparti erano stati chiamati a realizzare la loro “impresa
campo”, tenendo conto delle occasioni speciali offerte da un incontro nazionale
e della possibilità di partecipare gestione delle attività generali.
Particolare attenzione era stata richiesta per il rispetto
degli orari (specie sveglia e silenzio) per l’uso dell’uniforme e delle
attrezzature. Una gara di stile avrebbe costituito la prima selezione per la
partecipazione al Jamboree del 1975 in Norvegia.
Limitate le attività comuni previste per tutto il campo: si
ricordano una Messa, una serata di espressione.
Purtroppo la parte organizzativa lasciò molto a desiderare.
L’acqua si dimostrò subito insufficiente, i rifornimenti carenti. Ma, a parte
qualche punta di risentimento dei capi riparto ed una certa atmosfera di
delusione iniziale, i ragazzi reagirono positivamente alle difficoltà, divenendo
i protagonisti del campo.
Scriveva Giovanni Morello su “L’Esploratore”: «l’acqua
prevista dall’organizzazione non era sufficiente, gli scouts con le ghirbe
andavano a cercarla un po’ più lontano; non si trovava lo zucchero, la
marmellata invece che sul pane finiva nel latte».
Perciò Morello non esitava a concludere: «il Campo nazionale,
che nella facile critica di qualche
oppositore ad ogni costo non sarebbe stato altro che una trionfalistica manifestazione
dei nostalgici del fischietto, si è rivelato, invece, una grossa impresa
per gli oltre 5.000 scouts e Capi che lo hanno vissuto».
Nella valutazione finale della pattuglia nazionale
guide-esploratori si legge un giudizio molto negativo sulla situazione
logistica ma anche l’entusiasmo dei ragazzi che chiesero (e la pattuglia girava
la richiesta al Consiglio generale 1975) di svolgere i campi nazionali a cadenza
regolare.
Nonostante la richiesta dei ragazzi, per vedere un nuovo
campo nazionale Agesci passeranno altri nove anni.
C’è da dire che anche questa volta si era ripetuta, come
l’abbiamo vista vivace nel 1921, la contrarietà antica di una parte della
Branca al concetto stesso di un campo di massa.
Da un punto di vista metodologico si costatò che il IV e V
livello non erano stati compresi e, di conseguenza, non si era capito il vero
spirito e le possibilità della “impresa permanente”.