Ritratti di personaggi dello Scautismo
Mons. Andrea Ghetti "Baden"
Il giorno successivo al funerale di don Andrea Ghetti, nell’agosto del 1980, scrissi alcune impressioni, forse un tantino strane. Da allora molte cose sono cambiate e di don Andrea si torna a sentir parlare, anche se non sempre dalle persone giuste e non sempre a proposito.
L’anonima fossa al cimitero di Musocco ha lasciato il posto ad una tomba “seria” nella Casa dello Scout in Via Burigozzo a Milano, ma non so quanto ci sia di diverso.

Sono stato in forse se riproporre questo brano a distanza di così tanti anni, ma poi ho deciso per il si. Ho pensato, infatti, che anche queste mie righe possano servire almeno tenere vivo un “certo” ricordo di don Andrea e della sua ricca personalità sacerdotale e scout, così difficile da trovare nei ricordi ufficiali, e farlo conoscere a quanti, specialmente per motivi di età, non hanno potuto incontrarlo.

Ricordiamo che don Andrea fu socio fondatore del nostro Centro Studi e ne fu anche l’Assistente fino aI suo ritorno alla Casa del Padre e tocca un po’ anche a noi di non lasciar spegnere quella luce: ad altri l’austero compito della ricerca archivistica e documentale.
Gregorio di Tour diceva, riferendosi agli uomini del passato,”che noi siamo dei nani sulla spalle di giganti”. L’immagine è ancora valida oggi. Don Andrea è certamente stato un gigante nello scautismo e il suo pensiero e la sua convinzione continueranno ad aiutarci per vedere lontano.
Oggi più che mai avremmo bisogno di giganti...!

don Annunzio

"Ogni tanto, fortunatamente, penso alla morte, soprattutto quando partecipo ai funerali di un amico mio.

Nel passato non mi sono mai posto il problema della mia sepoltura, tanto mi sembrava irrilevante. Ieri, però, ho deciso di lasciar detto che mi dispiacerebbe esser sepolto a Milano. Non è che ce l’abbia coi milanesi, brava gente senz’altro. In certi settori sono i migliori d’italia, ma a seppe lire i morti proprio non ci sanno fare. Non si può manovrare le bare con la catena di montaggio!

Tu arrivi a Musocco per accompagnare un tuo carissimo amico nell’ultima “route” e ti trovi improvvisamente di fronte ad una specie di fossa comune, fonda due metri e lunga cinquanta: man mano che arrivano le bare vengono calate a distanza uguale una dall’altra, come in una zona colpita da grave calamità naturale. Verso sera, passa la ruspa e copre tutti.

Roba da milanesi, che a noi romagnoli fa senso.

Forse lo scatolificio Schiassi, che ho in parrocchia, può sistemare così in fila la produzione in magazzino, ma mi rifiuto di accettare che si possa fare altrettanto coi defunti.

In Romagna è vivo il culto dell’individualità, tanto è vero che si usano ancora molto i nomi strani ed originali e quando, per poca fantasia dei genitori, uno si chiama solo Giuseppe o Pietro, allora si vede affibbiare un soprannome colorito, che valorizza la sua personalità.

Non devono esserci confusioni: se ogni uomo - come dice Chesterton - è una parola di Dio che non si ripete mai, allora deve avere un segno distintivo che lo faccia riconoscere con sicurezza tra gli altri.

Ho sottomano il bando contro il”Passatore” del Commissario Pontificio per le quattro legazioni. Ogni membro della banda è descritto con molti particolari somatici, per favorire il riconoscimento a chi desiderasse collaborare con la giustizia. A fianco di ogni nome è sempre segnato, in apposita casella il soprannome: Lasagna, Mattiazza, Teggiolo, Ghigno, ecc. In Romagna si è sempre usato così perché gli abitanti sono tutti un po’ anarchici e repubblicani: ognuno è una repubblica per conto suo una specie di S. Marino in miniatura. Anche dopo la morte c’è il rispetto dell’individualità: ognuno ha diritto alla “ sua” buca o alla sua lapide originale, e i cimiteri non danno mai l’idea di un esercito di morti schierati in attesa dell’ispezione. Casomai è un esercito di garibaldini: ognuno ha la sua brava divisa fuori ordinanza ed anche dopo morto deve conservare un certo spirito bersaglieresco. Vuole infatti la tradizione, che i bersaglieri dopo morti sappiano fare ancora sette salti.

Qualcuno mi chiederà perché stia facendo questa specie di dissertazione sui romagnoli passati a miglior vita. È un atto di doverosa solidarietà verso il mio amico, il mio fratello scout, le cui spoglie mortali erano ieri laggiù allineate, in attesa della scarica di terra dell’impietosa ruspa milanese.

Per nascita era metà romagnolo, ma per temperamento molto di più e mi ha dato molto fastidio vederlo invece sistemato secondo la rigida e anonima disciplina funeraria ambrosiana.

lo credo che don Andrea, o meglio “ Baden” (da buon romagnolo si era infatti scelto un soprannome più personalizzato) starebbe meglio sepolto nel piccolo cimitero di VaI Codera, la dove ognuno, anche dopo morto, rimane qualcuno e non un numero e una lapide uguale alle vicine.

Che don Andrea avesse una origine romagnola credo Io si possa affermare senza dubbi anche senza ripercorrere la storia della sua famiglia.
Basti pensare, per esempio, al soprannome: di Baden tutti sanno che n’è esistito già uno ma quello si chiamava anche Powell. Credo che don Andrea da giovane si fosse ispirato proprio al buon vecchietto fondatore dello scautismo per scegliere il soprannome. Era un segno d’affetto, di rispetto e di fedeltà che sottolineava la scelta precisa di uno stile di vita caratterizzante. Il soprannome per don Andrea era una specie di uniforme che evidenziava i tratti, già tanto marcati, della sua ricca personalità.

lo ho sempre fatto fatica a chiamarlo “Baden”, preferendo il nome di battesimo, ma ora mi accorgo che quel soprannome, prima che per gli altri, era per lui una bandiera, un cappello piumato, un’armatura, il segno di una fedeltà allo scautismo.
Questa fedeltà romagnola aveva una grande carica di sentimento; come prova basterebbe ascoltare ancora le note e le parole dei “Canti di mezzanotte”, di cui Baden fu uno degli autori, e che ebbero un ruolo importantissimo nel delineare lo stile scout - diciamo così - dell’ASCI. Vale la pena di ricordare anche che il libretto fu poi gettato nel dimenticatoio dagli iconoclasti della nuova generazione politicante, intellettualoide e sessuologa, per sostituirlo con le canzoni da osteria e della protesta chitarraia.

La fedeltà e l’amore di don Andrea allo Scautismo non potevano arrendersi alle astuzie della diplomazia; quando le cose presero una brutta piega egli denunciò il pericolo a chiare parole, a rischio di diventare impopolare. Divenne infatti un personaggio scomodo a molti e rifiutato dalle strutture. Questa sua capacità di non scendere a compromessi fa di lui uno dei personaggi chiave dello scautismo italiano. L’associazione ha resistito negli anni bui perché qualche fiaccola è rimasta a indicare il giusto cammino, mentre troppi capi ed assistenti, per mantenersi un consenso, hanno giostrato tra la contestazione ed "il riflusso", gestendo tranquillamente prima l’una poi l’altro.

Tante robuste intuizioni, tante geniali interpretazioni dello scautismo, e del roverismo in particolare, le ha seminate col cuore don Andrea a Colico e fortunatamente sopravvivono ancora, sfidando l’usura del tempo e l’insipienza degli uomini.

Romagnolo nell’anima « Baden » lo era in pieno.

I romagnoli non sono mai stati degli amministratori ma dei pionieri. La Romagna da sempre è stata una regione di frontiera e non ha voluto perdere questa sua vocazione nemmeno dopo l’unità d’Italia. I Romagnoli, eredi dei loro antenati che avevano militato nella “decima legio” di Cesare, cercarono allora nuove frontiere nelle grandi lotte sociali, nelle bonifiche e infine, oggi li troviamo impegnati nell’avanguardia dell’organizzazione turistica.
Una lapide ad Ostia ricorda che le prime bonifiche pontine furono iniziate, all’inizio del novecento, dai braccianti romagnoli. Dopo un anno di lavoro il venti per cento erano morti di malaria ma gli altri non si arresero e rimasero tenacemente sul posto, pur di conquistare un pezzo di terra da coltivare.

Don Andrea fu sempre un “prete d’assalto”, aperto a qualsiasi impresa scout. Era capace anche di stare dietro alla scrivania parrocchiale; tante anime hanno trovato la soluzione dei loro problemi e la tranquillità della propria coscienza proprio tra le mura del sùo accogliente ufficio ma era insuperabile in un campo, in una route o in una operazione di soccorso.

La sua presenza faceva diventare quell’attività di “prima classe”, degna di diventare storia associativa se non leggenda.

Come non ricordare anche i suoi colpi di mano, i suoi blitz, organizzati per burla in vari campi nazionali.

E romagnolo non erano forse il suo modo di fare un po’ scanzonato e il suo parlare ricco di paradossi?

In Romagna, quando s’incontra un amico, in segno d’affetto gli si da una manata sulle spalle e gli si rivolge un brutto auguraccio. Chi non conosce il carattere di quella gente rimane esterefatto; c’è poi da spaventarsi assistendo ad una discussione tra due romagnoli: ad un estraneo quella animata polemica a voce alta, quei toni violenti, lasciano ragionevolmente supporre che tutto possa concludersi tragicamente e invece... terminerà tranquillamente davanti ad una bottiglia di Sangiovese.

L’irruenza nel parlare, il tono alto della voce, il calore delle parole, il gesticolare delle mani sono la manifestazione esteriore di forti convinzioni, che ognuno cerca di manifestare con tutti i mezzi della propria personalità. I canoni della espressione romagnola spesso mettono in difficoltà, se non in crisi, chi non li conosce e non sa che certi modi, qualche volta un po’ rudi, sono il segno di un animo e non di una animosità di un animo che ha il gusto della polemica, della difesa dei diritti e di una certa rivolta permanente verso l’ordine costituito. La Romagna è stata la patria o il rifugio di molti grandi rivoluzionari, che sapevano parlare col cuore ed al cuore.
Anche don Andrea ha avuto il gusto della polemica, della battaglia, magari per la difesa dell’uniforme scout. I suoi articoli sono sempre stati ispirati ad una rivoluzione permanente interiore ed anche esteriore, non per distruggere ma per costruire sempre meglio.

A Colico si corre! . I toni romagnoli sono sempre un po’ bersagliereschi ma a che cosa si ridurrebbe lo scautismo se si sedesse e perdesse la fierezza del proprio dinamismo e della propria identità?

Ora che don Andrea ci ha lasciati rimpiangeremo certo di non avergli dato, negli ultimi anni, sufficiente spazio e sufficiente ascolto.

E’ troppo facile e comodo scegliere chi diplomaticamente sa dare ragione a tutti. Don Andrea era invece un prete scomodo perché aveva il coraggio di compromettersi e di dire apertamente e di slancio il proprio parere.

Qualcuno, mi par già di sentirlo, dirà che Baden negli ultimi anni era stato messo un po’ da parte per non aver saputo comprendere la nuova situazione giovanile. lo credo che l’avesse capita fin troppo bene e che le sue reazioni fossero proprozionate al desiderio di mantenere lo scautismo un movimento di élite e di controcorrente alle mode dilaganti. Certo don Andrea non ammetteva, i compromessi e le mezze misure, che oggi ci siamo abituati ad accettare in nome di una pseudo unità associativa. Voleva che ragazzi ed adulti fossero fieri ed entusiasti di una scelta scout, capace di dar loro una marcia in più.

Non aveva simpatia per lo scautismo in blu jeans, sciatto e mimetizzato.

Ce ne fossero ancora molti di preti nello scautismo, poco o niente disposti al permissivismo ed al possibilismo e capaci di alzare la voce al momento opportuno!
Don Andrea ce ne ha dato l’esempio: la sua sofferenza, la sua polemica, l’ardore dei suoi slanci ci assicurano sul suo amore paterno verso lo scautismo. La sua morte ci lascia un po’ orfani: abbiamo perso un padre. L’associazione ha molti funzionari, molti professori, molti « quadri, ‘ ma pochi padri!

Mi è venuta anche la tentazione di paragonare don Andrea a Geremia, un romagnolo ante litteram . Anche al tempo del profeta il popolo, piuttosto che ascoltare la sua parola infuocata, che proponeva una vita difficile ed impegnativa, preferiva rivolgesi a coloro che lo blandivano e lo accarezzavano con previsioni di tranquillità e di sicurezza.

Don Andrea non era certamente per uno scautismo facile, addomesticato, che vada bene per tutti.

Rispetto alla parola data, vita rude, chiarezza d’idee, scelte impegnative e fedeltà alla Chiesa erano le note caratteristiche del suo ideale scout, un ideale ASCETICO.
Oggi invece si tende piuttosto a proporre uno scautismo sociale, che accontenti tutti, una specie di ricreatorio. Vuoi i blue jeans nell’uniforme? Eccoti i jeans. Vuoi le ragazze? Eccoti le ragazze. Camminare è fatica? allora ci sediamo e facciamo. una bella discussione; e così via.

Come per Geremia credo che anche per don Andrea fosse una grande sofferenza vedere in molti posti uno scautismo anonimo, adagiato, seguace di mode e costumi forestieri, piuttosto che lievito e luce.
Uno scautismo che insegni solo a diventare e a vivere come tutti gli altri, che renda uguali, non può piacere ad un romagnolo. Uno scout lo si deve notare subito: per il suo sorriso, la voglia di lavorare, la competenza, il desiderio di essere utile, il suo stile di comportamento: deve essere -infatti - avanti e sopra gli altri, altrimenti che esploratore è?

Per questo mi dispiace che le spoglie mortali del romagnolo don Andrea Ghetti, uno dei pochi e veri profeti dello scautismo cattolico italiano, siano diventate un numero qualsiasi di un piatto cimitero milanese invece di esser sepolte in Val Codera, in alto tra le cime dei monti."

da Esperienze e Progetti

Per altre notizie su Mons. Andrea Ghetti consultate:www.monsghetti-baden.it

In occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Mons. Andrea Ghetti il Centro Studi ha pubblicato un numero speciale di Esperienze & Progetti, curato da Vittorio Cagnoni, intitolato "La traccia di Baden".

Al fascicolo ha dedicato una recensione anche il quotidiano Avvenire
qui disponibile in formato pdf.




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