Scuola di Capi
Impressioni su un libro di M.D. Forestier

 

 

Qualche mese fa mi è tornato per le mani un libro di M.D. Forestier, “Il metodo educativo dello scoutismo” (Scoutisme Route de Liberté) che so ormai introvabile da tempo, e ne ho approfittato per rileggerlo.

Si tratta di una panoramica a 360° sulla società del tempo, e l’ho trovato ancora molto attuale benché scritto 50 anni fa, veramente ricco di stimoli ed in alcuni punti persino lirico.
E’ un vero peccato che non sia possibile farlo avere come stimolo ai capi scout e a tanti giovani gravati, in modo diverso, da responsabilità.

Ho pensato per questo di riproporre il capitolo dedicato alla tecnica del capo con le teorie di Fayol (prevedere, organizzare, comandare o stimolare, coordinare, controllare) e di completare questo “invito alla lettura” con un’invocazione ai Santi che si trova verso la fine del testo.

Buona lettura

Paolo Gibellini

 

M. D. Forestier

SCUOLA DI CAPI

Il metodo educativo dello Scoutismo
(Scoutisme Route de Liberté)
Editrice La Scuola, Brescia. 1960
cap. 8 (pp. 95-110)

Quante volte ho sentito lamentare, durante la mia vita, la mancanza di capi, e in tutti gli ambienti, in tutti i grandi organismi della nazione.

Nulla è più raro che un vero capo, uomo di iniziativa, di dedizione al bene comune, e dal quale emana una virtù dominatrice o persuasiva, che fa l’unità di un gruppo umano, fosse pure per una semplice circostanza.

All’indomani della guerra del 1914, dopo la scomparsa dei migliori di venticinque leve, non è sorprendente che in Francia siano tanto mancati i capi. Ma ancor prima di questo sacrificio innumerabile, ci si lamentava di possedere più intelligenze che caratteri.

La centralizzazione dei servizi pubblici e della grande industria, la burocrazia e le regolamentazioni troppo minuziose che ne risultano, non sviluppano il gusto delle iniziative, né della responsabilità. Il ricorso al «precedente», l’ossessione «d’essere coperto» da un costume o da un ordine, sterilizzano le qualità virili ed impongono una triste consuetudine.

La questione dei capi è dunque al primo posto fra quelle che pone la vita sociale. Vi sì doveva molto riflettere dopo le analisi che un industriale, Enrico Fayol, aveva fatto della funzione di comando.

Gli inizi del nostro movimento coincidevano con queste aspettative e queste ricerche. Noi amiamo pensare che lo Scoutismo, se riuscisse a formare uomini degni di questo nome, sarebbe nello stesso tempo una scuola di capi.
Ero stato chiamato a tenere, nel 1925, una conferenza su questo argomento alla Réunion des étudiants, al famoso «104» della via di Vaugirard, diretta dal P. Plazenet, la cui conversione allo Scoutismo segnò una data per l’associazione.
Non avevo l’intenzione di ricordarla in questo libro. Il caso ha fatto che uno dei Commissari più focosi di quell’epoca m’abbia detto recentemente che aveva tratto vantaggio da quella conferenza non solamente nella sua vita di capo scout, ma nella sua vita di ufficiale, come ora, diventato sacerdote, ne traeva profitto per la direzione della sua grande parrocchia parigina.

Mi sono dunque deciso a riprenderla e a pubblicarla con qualche modifica.
Più sopra ho tentato di mettere in forte risalto il primato dell’educazione nel nostro movimento. Essere capo, significa voler essere educatore. Ma comportando il nostro metodo l’organizzazione di un ambiente educativo che per se stesso è benefico, il nostro educatore dovrà anche comandare e organizzare: essere capo.
Il movimento è pure una buona scuola per i giovani che assumono le funzioni di commissario di zona o di provincia. Imparano a governare, si iniziano alla politica delle relazioni e al l’amministrazione delle loro risorse.

La perfetta riuscita del Jamboree di Moisson, nel 1947, nonostante le grandissime difficoltà derivanti dalla guerra, ha provato che il nostro movimento aveva formato dei capi efficaci. Tutti i servizi furono effettivamente nelle mani di scouts: comunicazioni, ospedale, chirurgia, approvvigionamento, poste e telegrafi, ecc. L’ampiezza della concezione dovuta ad Enrico Van Effenterre, il numero e la competenza dei capi servizio, tutto ciò ha colpito profondamente i nostri amici scouts degli altri paesi, che ne riparlano spesso (più di noi stessi!). Uno svizzero mi diceva: «Vi confesserò che temevamo per voi questa iniziativa. Voi, Francesi, non avevate la reputazione di essere buoni organizzatori. Voi avete capovolto questa opinione. Lì tutto era previsto da lunga data, organizzato con intelligenza, e tutto ha funzionato meravigliosamente».


Ed ora ritorniamo alle teorie di Enrico Fayol e dei suoi amici.


LE TEORIE DI FAYOL

Alcuni uomini d’azione, strettamente a contatto con la realtà, tanto più attenti a osservarla in quanto i loro interessi vi erano inclusi, voglio dire alcuni industriali, hanno pensato, seguendo Enrico Fayol (1), che dovevano esservi delle leggi nell’arte di ben comandare. E’ alla loro terminologia che io vorrei attingere per tentare di definire la funzione di capo, le leggi del suo esercizio e le virtù che essa richiede.

Se l’organizzazione del comando, nel nostro Scoutismo corrisponde alle esigenze di questa nuova scienza, mentre l’abitudine di servire sviluppa nei nostri capi le qualità volute, lo Scoutismo meriterebbe il nome di Scuola di Capi.

La nostra concezione dell’autorità mi sembra molto ben simboleggiata dal saluto impeccabile del piccolo scout al suo capo: saluto in cui il «tu» fraterno tempera una rigidità che si sente pronta a sciogliersi, nelle ore difficili, in un grande slancio d’affetto e di mutua confidenza.

* * *

In una azione determinata, la funzione di capo si differenzia specificatamente da tutte le altre funzioni che possono concorrervi. «L’uomo che comanda in un affare non è il tecnico, almeno in quanto tale, è l’organizzatore, personaggio che vale soprattutto per qualità di carattere, di giudizio, d’imparzialità» (2). Importa non confondere questa funzione con la capacità tecnica del capo. Per esempio, un capo riparto, nel suo gruppo, sarà, per certe attività, istruttore. Questa funzione d’istruttore è differenziata dalla sua funzione di capo. Un direttore di scuola potrà fare un corso, allora avrà una funzione professorale, e la sua azione del momento sarà differenziata da quella di direzione. Il vescovo, nella sua diocesi, potrà occuparsi personalmente di conferenze per adulti: allora sarà catechista, teologo, dottore, e la sua azione si differenzierà da quella di capo del gregge.

La superiorità del capo in quanto capo sarà dunque diversa dalla sua superiorità tecnica.

«Alle volte, in un salotto - scrive Wilbois parlando del vescovo, del comandante di nave, di un direttore d’orchestra o di un imprenditore - meravigliano perché non sono eloquenti…, e nonostante quei vicini che li schiacciano con le loro superiorità particolari, si sente che sono essi a muoverli nella direzione voluta»(3) .
La funzione di capo, al di fuori di ogni tecnica speciale, ha per sua sola missione quella di creare l’unità e di assicurare il funzionamento dell’organismo destinato ad un’azione definita.

L’atto di comandare ha i suoi tempi psicologici, molto simili ai tempi dell’atto umano. E’ lo stesso spirito umano che è in gioco per organizzare e promuovere la vita personale o la vita dell’istituzione.

I tempi del comando sono stati analizzati dal Fayol in questo modo: prevedere, organizzare, comandare, coordinare, controllare.

PREVEDERE

E’ tale l’importanza della previsione che, in una sintesi proverbiale, sì è detto che in essa risiedeva il governo(4) . In effetti, prima di agire bisogna sapere ciò che si vuol fare: prima dì partire, sapere dove si vuol andare; la prima cosa è di precisare il fine; ma qui non si limita la previsione.

Fissato il fine, bisogna pensare ai mezzi per raggiungerlo: scegliere la strada migliore; confrontare l’esperienza e l’osservazione; preparare le tappe; calcolare gli ostacoli; tracciare il programma d’azione, minuzioso all’inizio, appena abbozzato per gli anni che verranno, per adattarlo alle circostanze e ringiovanirlo senza posa.
E’ molto importante che il capo conservi il dominio dei mezzi. Si faccia aiutare dai tecnici dell’amministrazione finanziaria; ma se non li comanda, ne diventa lo schiavo. Questi tecnici giudicheranno delle spese da un punto di vista contabile che avrà poco a che vedere con lo spirito dell’iniziativa e i suoi scopi. E’ così che l’amministrazione delle finanze sterilizza spesso, mi si dice, le iniziative degli altri ministeri. Il generale De La Porte Du Theil, grande organizzatore, non cessava di ripetere: «A cominciare dal momento in cui un capo non amministra più la sua unità, egli non la comanda più».

Ogni impresa richiede, da parte del capo, immaginazione creatrice. Ma allo spirito d’invenzione, il capo dovrà aggiungere uno spirito pratico e un robusto buon senso per armonizzare i risultati ambiti ai mezzi di cui dispone, e per individuare con coraggio le sue possibilità e i suoi rischi.

I geni sono diversi: Foch concepisce, prepara, stabilisce tutto da solo. Joffre ha il talento di farsi ben attorniare: fa preparare parecchi progetti, li giudica, ne sceglie uno; ma da quel momento lo fa suo, ne prende la responsabilità e nella sua possente maniera di farlo applicare, veramente capo.

La mia esperienza della vita scout mi permette di dire che il punto debole dei giovani capi sta nel sottovalutare l’importanza dei mezzi. Essi concepiscono nell’euforia dell’entusiasmo iniziative magnifiche; sono tentati di dimenticare che tra l’intenzione e la realizzazione, vi è tutto un abisso di possibilità. Quanti capi di riparto impartiscono ordini che oltrepassano le forze e i mezzi dei loro capi squadriglia! E chiamano questo aver fiducia in loro: credono che ciò sia «il lasciar agire» e praticare i metodi attivi. Proprio per questo è utile ricordare che il capo deve lasciar agire i subordinati, ma dopo aver dato lui le direttive, i mezzi, in una parola, tutto ciò che è necessario per riuscire.

Ciò che è vero per le piccole iniziative, lo è ancora più per le grandi: celebrazioni, raduni, pellegrinaggi. Non bisogna incominciare più cose di quante non si possano fare, quali che siano i motivi per credere di fare di più e meglio. Bisogna incominciare solo ciò che si può fare bene. Naturalmente non è proibito essere audaci quando si sono messe tante probabilità dalla propria parte così da poter sfidare la fortuna.

ORGANIZZARE

Avendo fissato lo scopo, si sa ciò che si vuol fare. Si dovrà ora stabilire un programma d’azione, domandarsi come ci si dovrà comportare, da dove si dovrà cominciare, a chi bisognerà fare appello e quali saranno i mezzi da adottare d’urgenza. Ciò sottolinea i rapporti tra la previsione e l’organizzazione: la prima non può tendere più in là di quello ove può andare. Non è sufficiente immaginare: bisognerà realizzare.

Un piano militare dovrà tener conto delle strade, del materiale, come nello stesso tempo, dei dispositivi d’attacco. L’industriale, mentre . pensa agli sbocchi dei suoi prodotti, dovrà preoccuparsi del terreno su cui si innalzeranno le sue officine, delle macchine che daranno il miglior rendimento e dei trasporti meno onerosi.
Un capo riparto, consapevole di voler fare degli scouts, non utilizzerà gli stessi metodi per ambienti diversi e dovrà fare i conti con le difficoltà materiali: locale, campo, gruppo Amici degli Scouts che aprano le loro officine per la preparazione dei brevetti o le loro proprietà per le uscite.

La cosa più ardua, nell’organizzazione, è la scelta dei collaboratori. Non si hanno sempre sottomano un Colbert, un Turenne, un Vauban. Il capo realista, lungi dal lamentarsi sterilmente delle imperfezioni dei suoi subordinati, metterà tutta la sua capacità nell’utilizzarli secondo le loro possibilità. Questa è la grande arte e anche la grande saggezza del capo. E’, bisogna dirlo, una terribile prova. Non si ha che raramente la gente che occorrerebbe. Quanto realismo rassegnato nella formula d’Aristotele: «Il capo non fabbrica i suoi subordinati . Li riceve già fatti dalla natura!». E’ l’occasione di applicare eroicamente il consiglio insistente di Baden-Powell: «Abbiate fiducia e date delle responsabilità». La pazienza del capo durerà fino al momento in cui avrà riconosciuto inutili tutti gli sforzi per formare il suo subordinato: e allora avrà bisogno di un’altra qualità per separarsene, essa pure rarissima: si chiama coraggio.

Altre volte, bisognerà che egli sia disposto a riconoscere, nei suoi subordinati, talune superiorità nei suoi con fronti, e che sappia invece di temerle, metterle in valore per farle servire alla miglior riuscita dell’impresa (5).

COMANDARE O STIMOLARE

Ognuno al suo, posto, e un posto per ciascuno. Essendo pronta la macchina, si tratta di metterla in movimento; è qui dove si rivela il vero capo. Bisognerà che comunichi il suo spirito al tutto, che faccia circolare il proprio spirito, sostenga lo slancio, tenendo lo sguardo fisso allo scopo.

La cosa più difficile è il saper perseverare ed applicarsi con costanza, soprattutto con ragazzi e rovers, instabili per costituzione.

San Domenico dava prova, nelle decisioni prese a ragion veduta, di tale costanza, da non ritornare mai su una decisione resa pubblica dopo matura riflessione. Mi quanta riflessione e preghiera, che profondità nella elaborazione, prima di una importante decisione!

La conoscenza degli uomini è massimamente necessaria a colui che impartisce ordini. Bisogna adattarli alle capacità di ciascuno, lasciare a quelli che ne sono degni molta iniziativa; e invece, tenere completamente in pugno coloro che non saprebbero agire da soli, tentando sempre di trarre il massimo profitto dagli uni e dagli altri. Vi è tutta una gamma che va dal secco comando fino alla persuasione sottile. Certi capi sono così maldestri che, appena hanno parlato, i loro subordinati desiderano fare il contrario di ciò che è stato loro comandato.

Se si tratta di una grande impresa, il pericolo per il capo sarà quello di perdersi nei dettagli. Gallieni, dopo aver giudicato di aver ben riposta la propria fiducia, non voleva più conoscere i dettagli: «Solamente il fine mi riguarda », diceva al comandante Lyautev. Ma questa, in ogni stadio dell’azione, è la peggior tentazione. E’ tanto più sbrigativo e meglio fatto l’agire da soli che far imparare agli altri come fare! E’ difficile il sapersi far aiutare; tuttavia è indispensabile per il capo il sapersi liberare dalle minuzie per pensare all’andamento generale. Come è stato ben detto: è il capo che farà tutto; ma a condizione di non fare nulla, e di far fare tutto.

I nostri moderni dirigenti d’industria, quando, formulano questa regola, sospettano forse di essere in pieno accordo con Sant’Ignazio? E che ciò che essi pensano si trova riassunto in una lettera scritta ad un Provinciale del Portogallo nel gennaio 1552?
«Non è compito del Provinciale né del Generale occuparsi di ogni dettaglio. Conviene meglio alla sua dignità ed è più sicuro per la sua tranquillità d’animo lasciarne la cura agli ufficiali inferiori e farne render conto in seguito. lo agisco sempre così nel mio ufficio, e ogni giorno più traggo vantaggio da questo principio perché mi sento sollevato da grandi lavori e da grandi preoccupazioni. Vi raccomando molto di fissare i vostri pensieri e le vostre cure sugli interessi generali di tutta la Provincia. Se occorre, occupatevi voi stessi degli affari da regolare domandando il parere di coloro che voi giudicherete competenti. Ma, il più spesso, evitate di condurre fino in fondo questi affari. In questo modo, compirete più lavoro, e lavori più specificatamente in rapporto con la vostra carica, senza rumore e senza febbre».

* * *

Il capo avrà la grande preoccupazione di assicurare una buona trasmissione dei suoi ordini. Un subordinato non deve dipendere che da un solo capo: bisogna evitare ad ogni costo gli accavallamenti imprevisti. Si vogliono alcuni esempi?
Un capo riparto riunisce i suoi capi squadriglia. Prescrive loro un’attività: preparare il menu. I capi squadriglia raggiungono la loro squadriglia, dividono i vari compiti tra i ragazzi. Il capo riparto, poco dopo, passa vicino ad una cucina e dice al ragazzo che vi incontra: «Vuoi fare un servizio per me?». L’altro, da ragazzo disciplinato, si affretta ad ubbidire.
Ecco una squadriglia che non mangerà all’ora stabilita, dove potrà insinuarsi il cattivo umore, dove non mancherà di verificarsi una discussione fra il ragazzo e il capo squadriglia alle spalle del capo riparto. Tutto ciò perché quest’ultimo ha disprezzato una regola elementare di comando (6).

Nell’industria, tali incidenti non sono rari. Per esempio, un ingegnere va da un cliente importante che gli segnala una recente consegna difettosa. Il rappresentante fa il suo rapporto al servizio commerciale da cui dipende; ma, passando dal servizio tecnico, parla del reclamo. Il servizio tecnico, suscettibile in ciò che tocca la fabbricazione di cui ha il controllo, consulta i suoi prontuari, i suoi rapporti d’officina, afferma che il reclamo è mal fondato, comunica il suo sdegno al rappresentante che ritorna dal cliente, forte della sua informazione, per affermare che la consegna è certamente perfetta.

Nel frattempo, il direttore commerciale, che non ha le medesime ragioni per difendere ad ogni costo la fabbricazione, ma che, invece, tiene soprattutto a soddisfare un buon cliente, chiama costui al telefono, gli dice che non vuol nemmeno far verificare le sue asserzioni e che da ordini perché il materiale consegnato sia cambiato immediatamente. Il cliente ha appena riappeso il telefono, che arriva il rappresentante: quest’ultimo tiene un linguaggio tutto diverso e il cliente si offende, riferisce la conversazione avuta col direttore commerciale, e la faccenda si complica inutilmente.

Questi due esempi sono di poco rilievo: ma il sovrapporsi di ordini ha qualche volta conseguenze addirittura tragiche. Nel Passage de l’Aisne, il libro di Emilio Clermont, caduto nella Champagne, non si può seguire senza una stretta al cuore il massacro di un reggimento e, ciò che è più grave, il polverizzarsi di una possibile vittoria, non ostante sforzi sovrumani, e tutto ciò perché il generale di divisione, ignorando la regola del comando razionale, persiste a impiegare direttamente i battaglioni che passano dinanzi al suo comando, senza che il comandante del reggimento che li attende sulla cresta dove egli si batte, ne sia avvertito.

COORDINARE

Dopo aver definito il fine, riuniti i mezzi per attingerlo, distribuiti i compiti, stabilite le responsabilità, dato l’inpulso iniziale, bisogna curare che i vari servizi non dimentichino l’azione collettiva, non si ignorino fra loro, collaborino con amicizia(7) . Questa pace che deve far regnare, e che si chiama «tranquillità dell’ordine», deriva dalla tranquillità del capo.

Bisogna fare della macchina un organismo vivo, in cui ogni parte lavora in armonia con le altre, ispirandosi tutte al pensiero del capo. I capi subalterni lo trasmetteranno, diverso nei suoi modi, immutabile nella sua intenzione, fino ai gradi più lontani. Dividere il lavoro era bene; bisogna ora stabilire i collegamenti e gli incontri necessari perché non vi sia un mosaico di sforzi sovrapposti, ma un , azione moltiplicata. Sarà questo l’oggetto del quadro di organizzazione.

La complessità delle funzioni vi sarà armonizzata. i rapporti fra i diversi servizi previsti, e definita la gerarchia che deve esistere fra essi. Secondo le teorie di Fayol e dei suoi seguaci, il direttore generale, al quale sarà sufficiente una qualche conoscenza tecnica, si circonderà di specialisti e di aiutanti che costituiranno il suo stato maggiore, vero prolungamento della sua personalità. Avrà sotto la sua azione diretta i suoi capi servizio, responsabili, che agiscono non più per obbedire a un ordine, ma per lui.

Ma è molto importante che lo stato maggiore, al servizio del capo, non esorbiti dal suo compito, ingerendosi nella direzione dei servizi. In assenza del direttore generale, sarà un direttore che lo sostituirà, e non il segretario generale. E’ un comandante di battaglione che sostituirà il colonnello e non l’ufficiale di stato maggiore; sarà un capo riparto che dovrà sostituire il commissario, in mancanza di un suo aiuto; un capo squadriglia e non un istruttore che sostituirà il capo riparto.
I rapporti fra i servizi saranno assicurati dalla Conferenza che si tiene a data fissa dopo esser stata preparata. «Ogni capo espone a turno l’andamento del suo servizio, le difficoltà che incontra, l’aiuto che richiede e le soluzioni che propone. Il direttore sollecita il parere di tutti... dopo la discussione una decisione vien presa... un verbale redatto» (8).

Al di fuori di questo rapporto fra i capi servizio, comunicazioni eccezionali sono necessarie per ovviare alla lentezza delle trasmissioni, con la riserva che i subordinati, così autorizzati a trattare con gli altri servizi, rendano conto delle loro azioni e dei risultati ottenuti.

E’ facile far il parallelo tra questa organizzazione razionale e quella dei nostri riparti scouts, avendo il capo riparto al suo fianco i suoi aiuto-capi, sotto i suoi ordini i capi servizio, che sono i capi squadriglia e la Conferenza chiamata Corte d’Onore.
Farsi rendere conto, ma anche rendere conto della propria azione ai subordinati, mi sembra sia tanto più necessario quanto più è cosa poco praticata. E’ la vera condizione di un vero spirito di lavoro a squadra.

CONTROLLARE

Dopo aver previsto, organizzato, comandato, coordinato, il capo deve assicurarsi costantemente della risposta data dai fatti ai suoi progetti, per operare d’urgenza le correzioni utili. Che controlli se ha ben riposto la sua fiducia; se, avendola ben riposta, si è fatto comprendere bene, ciò che è molto difficile, perché, per ben dare un ordine, bisognerebbe potersi mettere al posto di chi lo riceverà, conoscere ciò che egli ignora, immaginare le difficoltà impreviste che incontrerà. Per quanto un ordine sia stato ben dato, non è eccessivo dire che, se non se ne controlla l’esecuzione, nove volte su dieci sarà mal eseguito. Essendosi fatto comprendere bene, resterà da controllare che gli ordini siano realizzabili.

Non esito a dire che è in questo controllo dell’azione, che i capi mi sono sembrati sempre molto difettosi nello Scoutismo. Contano troppo sulla buona volontà, e forse sulla fortuna. Sguinzagliano i loro subordinati nella natura, con ordini tanto vaghi quanto ambiziosi. «La squadriglia delle Aquile organizzerà per domenica un trampolino», senza curarsi dei materiali da procurarsi, né degli attrezzi necessari. Essi chiamano ciò dar fiducia!

Il capo potrà farsi aiutare nel controllo dal suo stato maggiore, ma dovrà stare in guardia contro la severità dei suoi inviati, proclivi a vedere i difetti dell’azione più che le sue difficoltà.

Ricompensare gli uni, spostare gli altri, e il più spesso stimolare, utilizzare con indulgenza, incoraggiare con mansuetudine, ecco ciò che corona il ciclo dell’azione del capo. Bisogna saper felicitare a tempo e saper attendere, per punire, che ogni passione sia spenta.

Se il successo sembra compromesso da resistenze impreviste, il capo è il solo che non abbia il diritto di commuoversene. Quando tutti saranno scoraggiati, gli occorrerà ancora, come scriveva nella sua trincea lo stesso Emilio Clermont, «atteggiarsi in tal modo da dare coraggio agli altri quando non se ne ha più per se stessi». Insensibile ai successi come ai rovesci, non lasciandosi esaltare dagli uni né deprimere dagli altri, non dovrà fare a meno della virtù della fortezza (9).
Quella virtù che permette di parare il colpo nelle disillusioni e nelle difficoltà e che dà il suo peso, dice Bossuet, alla ragione tranquillamente esposta .

Praticherà la franchezza che concilia la fiducia dei subordinati. Di Ernesto Psichari, i suoi uomini dicevano: « E’ talmente sincero che si desidera imitarlo ». Cercherà soprattutto il disinteresse che fa agire nell’interesse generale trascurando gli onori e subordinando totalmente il suo interesse personale. Verso ciascun subordinato, se sa vedere in lui una creatura di Dio, praticherà, non per calcolo, ma spontaneamente, una cortesia, un tale rispetto della sua dignità d’uomo che lo soggiogherà.

Nei premi, darà a ciascuno una parte equa, e le sue sanzioni avranno peso solamente se le ispirerà il bene comune, al di fuori di ogni malumore, fantasia o suscettibilità. Finalmente, è nella bontà che risiede il segreto di condurre gli uomini. E’ essa che acquieta e conquista le anime, ottenendo che gli ordini non siano più subiti o semplicemente eseguiti, ma amati e qualche volta prevenuti. «E’ molto intelligente, diceva il maresciallo Lyautey di un residente, ma non farà nulla perché gli manca quella particella d’amore senza la quale non si compie nessuna grande opera umana». Miss Vera Barclay raccomanda, in nome della «semplice cortesia», di non fare osservazioni ai fanciulli quando si è irritati o impazienti.
Il consiglio vale anche per gli adulti. Quanti capi feriscono inutilmente i loro subordinati, distruggendo in essi la gioia dello, sforzo e lo spirito d’iniziativa! «Quel diavolo di Lannes possiede tutte le qualità di un grande capitano, diceva Napoleone. Tuttavia non sarà mai grande, perché cede troppo al suo umore quando deve rimproverare gli ufficiali; non vi è un difetto peggiore per un generale». Essendo stato riferito ciò a Lannes da Marbot, si corresse e divenne maresciallo.

Quasi tutti i grandi capi, destinati a costringere all’azione l’inerzia umana, hanno avuto alle volte delle collere terribili, spontanee o calcolate. Ma se al di là di questa burrasca impetuosa i subordinati li sanno buoni, giusti, votati corpo e anima all’impresa comune, essi perdonano. Il peggio non è l’essere maltrattati, ma il non essere comandati.

* * *

Il capo, è colui che concepisce con entusiasmo l’opera da fare, decide con ardore e trascina gli altri con la prontezza della sua scelta.
Questo dono può essere acquistato, in una certa misura. Le virtù che devono accompagnarne l’esercizio dovrebbero essere coltivate, non foss’altro, stavo per dire, che per una certa preoccupazione d’efficienza. Ho visto un capo che possedeva al più alto grado e per istinto i doni del comando, e che li annullava per la sua mancanza di grandezza d’animo.

Una sana comprensione della tecnica del comando non può che aiutare il capo, qualunque sia il suo rango. Quando avrà capito che, dopo tutto, egli è solo l’uomo di una tecnica speciale, che non potrebbe far a meno delle altre, ma deve coordinarle tutte, il capo non sarà più tentato di cedere alla vanità e al gusto di stabilire da solo tutti gli obiettivi.

Pur avendo in mano degli strumenti animati, il capo non è lui stesso nelle mani del Creatore uno strumento? E’ l’opera dì Dio che egli è incaricato di far compiere. Che si tratti di fondare un’opera, d’animare un’officina o di varare delle navi, tenterà di entrare in comunicazione col cielo per conoscere a che cosa lo destina, insieme con i suoi, la volontà sovrana.

Se il capo si definisce moralmente dal coraggio nel prendere le sue responsabilità, in nome di che lo farà e ne sopporterà le conseguenze? Egli dona la sua vita e la rischia. Ciò non può essere che al servizio di un ideale. L’ambizione personale non può assicurare che una parte di questo coraggio; essa genera la rivalità, gli intrighi, la lotta contro le superiorità rivali, e compromette il bene comune.

Il cristianesimo ha generato delle pleiadi di capi nei quali si alleavano la competenza e un raro dono di sé. La parola del Cristo resterà fino alla fine dei tempi un appello e un programma: «Io sono venuto non per essere servito, ma per servire».

Il capo che ha levato lo sguardo verso il cielo per trovarvi il segreto dell’opera comune non cesserà di domandare, per coloro che gli sono affidati, i lumi e le grazie di cui hanno bisogno per essere adatti alle loro cariche.
Il capo dovrebbe essere il primo nella preghiera, capo di guerra e capo della preghiera, capo del lavoro e capo dell’orazione. Tale fu il maresciallo Foch. E tale fu il generale Guyort de Salins, uomo di attività instancabile, d’incredibile disinteresse e di costante preghiera, colui che, pezzo per pezzo, fece degli Scouts di Francia una grande associazione.

1)Enrico Fayol era direttore della Miniera dì Commentry quando la Commentry Fourchambault Decazeville fu condotta alla rovina in seguito alla scoperta di Thomas Gilcrist che permetteva di defosfare i minerali della Lorena. Fu chiamato alla direzione generale. Un azionista s’inquietò: «occorreva un metallurgista, si è scelto un minatore»; ma, questo minatore possedeva un metodo di amministrazione positiva, chiamato in seguito «fayolismo», e con le stesse miniere, le stesse officine, i medesimi procedimenti, le medesime risorse finanziarie, in poco tempo la società fu salva e da, allora non doveva più cessare di progredire. Si era trovato un capo.
2)E’ ciò che si è verificato in un altro campo: «Weygand ha concepito ed eseguito assai presto il suo piano per scacciare il nemico prima che fosse troppo tardi. Ora, il suo arrivo in Polonia non ha creato delle risorse nuove. 1 materiali noti mancavano, né gli uomini, né il coraggio: mancava un capo» (A. Maurois).
3)A. Maurois.
4)Al Consiglio di Stato, in assenza di Napoleone, gli Specialisti di Diritto discutono a non finire.
5)I vizi nemici della sana previsione sotto l’irriflessione, la leggerezza, la pigrizia, la sufficienza, la presunzione.
6)Ho visto compromessa nell’industria la carriera di un giovane Ingegnere per essere riuscito in una trattativa difficile in cui aveva fallito il direttore generale. Questa sottomissione alle leggi dell’azione, questa resistenza al suo capriccio e al suo piacere, è la forma d’umiltà propria del capo.
7)E’ tutto il problema delle Squadriglie nel Riparto e delle unità nel Gruppo.
8)Enrico Fayol
9)Da non confondersi con la brutalità. Si pensi alla potenza che emana da «La forza» dello scultore Bourdelle, così perfettamente placata, calma, padrona dì sé.




I NOSTRI AMICI, I SANTI

Non vorrei finire senza dire una parola dei nostri amici, i santi. Essi non l’hanno a male con me per aver io ricordato che non devono ingombrare le nostre vite col loro culto, ma devono essere dei buoni compagni che marciano avanti, sulla strada della perfezione.

I Santi ci danno la nostalgia di servire e di amare ed è per questo che noi amiamo Giovanna d’Arco nella quale abbiamo tante volte rivissuto la Passione e la passione della Francia; Paolo, cavaliere di Cristo; Giovanni il Battista; il grande S. Luigi , non sempre così comodo a seguirsi; la piccola Teresa, da cui ci vengono terribili lezioni; Francesco, signore della gioia perché amante della Croce; Domenico, pellegrino sei volte a Roma dalla quale non si può deviare; San Giorgio, di cui noi evochiamo l’eroismo con tutti i nostri fratelli scouts del mondo.

Ma che dirò di te, Maria. Tu hai ricevuto i nostri primi canti, Nostra Signora degli esploratori. Si è fatta una strana alleanza fra te e i tuoi ragazzi; non ti abbiamo più lasciata alle sole preghiere delle tue figliole: tu sei dì nuovo diventata la devozione virile della nostra vita dì uomini.

Vergine del Puy, che hai incoraggiato a morire tanti dei nostri, sappiamo che senza di te la spiritualità degli Scouts di Francia, e l’amore di cui noi ci amiamo, non avrebbero la loro impronta.

E noi vogliamo dirtelo, a bassa voce, teneramente: sappiamo bene che l’amarti così, non danneggia per nulla l’amore che, in Cristo, noi offriamo a Dio.

M. D. Forestier

Il metodo educativo dello Scoutismo
(Scoutisme Route de Liberté)
Editrice La Scuola, Brescia. 1960
p. 303




 

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