ANTONIO VIEZZOLI
UN EDUCATORE TRA TRADIZIONE E RINNOVAMENTO
I GIOVANI ESPLORATORI E LA SOCIETÀ TRIESTINA DEL NOVECENTO

L’irredentismo triestino al crepuscolo dell’Impero austriaco

Antonio Viezzoli nasce a Trieste nel 1904. Un luogo ed una data significativi.
Nascere allora a Trieste non è come nascere in un’altra qualsiasi città italiana. Trieste è una città che si sente e si proclama italiana,
ma che agli inizi del secolo è ancora sotto l’impero austriaco, ed aspira con forza a ricongiungersi all’Italia.
E’ una città internazionale, dove proprio nel 1904 giunge James Joyce per restarvi sino al 1921, dove vivono ed operano anche se con discontinuità, una discontinuità spesso forzata, Italo Svevo, Umberto Saba, Gianni Stuparich, Scipio Slataper.
Poco lontano, a Grado, nasce Biagio Marin, uno dei più grandi poeti in dialetto del Novecento.
Da Trieste, guardando verso ovest in una giornata limpida, il campanile di Grado si vede risplendere al tramonto. Me lo indicò mia zia, una maestra abruzzese che vinse la cattedra a Trieste negli anni trenta e non se ne andò più, rapita dalle atmosfere mitteleuropee tanto ben descritte nelle pagine di Claudio Magris, e che diventerà per trent’anni la direttrice della scuola materna di via dell’Istria.
Non fu l’unica cosa che mi insegnò: ricordo ancora il leone alato della Serenissima sulle mura di Muggia e Capodistria, il Carso con il silenzio delle foibe, terribile testimonianza dell’odio, e a pochi passi le rumorose osterie di campagna dove si mangia lo stinco e si beve il terrano, il castello di Duino e la strada del vino, i monti dell’Istria un tempo italiana, di cui avevo letto storie e vicende in Materada, l’antica parrocchia istriana descritta nel libro omonimo di Fulvio Tomizza.

Ma soprattutto mia zia mi insegnò che Trieste è una città speciale, crocevia di popoli, di religioni, di lingue, dove l’italianità è un sentimento forte proprio perché tenacemente voluto, assai desiderato e sempre e comunque amato. Una italianità che non è mai deteriore nazionalismo bensì sincero legame con le proprie radici storiche, con le proprie tradizioni e con la propria lingua, che queste radici e queste tradizioni esprime e raccoglie. Per cui nascere a Trieste è già trovarsi in un mondo singolare, tra oriente e occidente, tra le rocce della Val Rosandra ed il porticciolo di Sistiana, tra la solidità della borghesia mitteleuropea e lo spirito di avventura e di intrapresa dei mercanti veneziani. Insomma, un insieme di duro lavoro e di spensierato divertimento, non disgiunto da una certa propensione al lamento ed alla nostalgia del buon tempo antico.

Viezzoli vi nasce all’inizio del secolo, quando l’Europa era ancora ingenuamente immersa in un’epoca felice che durava da più di trent’anni. In quei decenni, scrivono due dei più attenti conoscitori della recente storia triestina, Angelo Ara e Claudio Magris:
"esiste a Trieste una cultura dignitosamente epigonale, fatta di tradizioni erudite intrecciate a passioni nazionali: la cultura degli studi di storia patria, delle memorie locali e degli archivi municipali delle cittadine giuliane e istriane, un umanesimo provinciale e pieno di decoro, onesto e antiquato, non realmente consapevole di ciò che accade nella storia del mondo e arroccato in un’ignara e a suo modo intrepida posizione difensiva dinanzi alla violenza distruttiva della storia mondiale che ha già passato agli atti quella cultura retorico - umanistica, quegli archivi di storia patria"(1) .

Nella Trieste austriaca si respirava dunque un’aria tranquilla (2), nonostante la polizia dell’imperatore fosse sempre pronta ad immaginare complotti e ad incarcerare i cospiratori italiani. Ma il sentimento irredentista degli italiani non era rivoluzionario, piuttosto era letterario, una letteratura che tentava di esprimere pienamente il dramma esistenziale di una generazione, ma restava pur sempre letteratura.
Tanto è vero che Trieste tornerà italiana a seguito di una guerra che segnerà il tramonto non solo di un impero, ma di un’intera epoca e anche negli anni seguenti, tra il quarantacinque ed il cinquantacinque, quando l’italianità di Trieste verrà messa più volte a dura prova, i suoi abitanti sapranno affrontare e vincere quelle sfide storiche che sono loro toccate in sorte e che collegano strettamente la storia dell’intera Italia con la storia di Trieste, così come collegano la cultura italiana a quella triestina, che della prima si sente una componente tanto importante quanto particolare.
Non so se Viezzoli sia stato presente, giovanetto di dieci anni, ai funerali dell’arciduca Francesco Ferdinando, che si svolsero a Trieste nel 1914, e sia stato consapevole che da quell’episodio l’Europa non sarebbe più stata la stessa. Di certo quelle vicende non possono non aver inciso profondamente sulla sua personalità.

 

La cultura del primo novecento tra positivismo, nazionalismo e idealismo

Il Novecento inizia con grandi speranze: il positivismo e la scienza; l’influenza dei popoli lontani e la concezione che l’uomo bianco ha il diritto di portare, e più spesso di imporre, la sua civiltà; le scoperte della medicina, che diradano le grandi epidemie e vincono la mortalità infantile
Ecco, la scienza impone il modello della salute e dell’attività fisica non solo per pochi ma per tutti, e soprattutto per i giovani.
Rinascono le Olimpiadi, nella scuola fa la sua comparsa l’educazione fisica (allora si chiamava ginnastica, un nome che evoca sia i romanzi deamicisiani sia, a Trieste, la società della ginnastica, ove alla cura del corpo si aggiungeva quella degli ideali patriottici).
Contemporaneamente (è ovvio che queste mie considerazioni sono semplificatrici di una realtà molto più complessa ed articolata) si sviluppa l’idealismo, una filosofia di derivazione tedesca che tende a ricondurre tutto al pensiero e che naturalmente induce ad un metodo astratto di affrontare i problemi.
A tale impostazione culturale reagiscono, nel campo dell’educazione, le idee, assai moderne ed innovative per l’epoca in cui si situano, di Maria Montessori e di Giovanni Bosco, i quali si rendono conto di come l’educazione scolastica tradizionale fosse assolutamente insufficiente in una società come quella italiana che andava mutando rapidamente.
Su tutto ciò si stende anche un forte nazionalismo, che si alimenta dei territori irredenti, dell’espansione coloniale, del desiderio di avvicinarsi alle grandi nazioni europee. E’ veramente un periodo di crisi, in cui si avverte con forza il passaggio di un’epoca: proprio in quegli anni si conclude l’ottocento e si appanna quel romanticismo che con alterne fortune lo aveva caratterizzato. In quegli anni inizia il modernismo, ed il novecento propone quelle caratteristiche che gli saranno proprie: il nazionalismo, le grandi guerre mondiali, lo sviluppo della tecnica, l’avvento delle masse e delle rivoluzioni.
Negli anni immediatamente successivi la prima guerra mondiale il nuovo appare un valore assoluto, cui tutti gli altri debbono piegarsi: da posizioni diverse i socialisti prima, ed i fascisti dopo, sentono il bisogno di abbattere il vecchio stato liberale, visto come un vecchio retaggio del passato, incapace di adeguarsi allo sviluppo della società. Di queste tendenze “moderniste” lo scoutismo avverte il fascino, ma non sembra riuscire ad allontanarsi da una impostazione che negli scout cattolici appariva troppo confessionale, e negli scout nazionali troppo militarista. Vediamo questo fenomeno più da vicino.

Lo Scautismo laico italiano nel pensiero educativo “entre deux guerres”

Il quadro culturale ed educativo che si è delineato permette di evidenziare il ruolo dello scoutismo quale cerniera tra una scuola che sembra non riuscire a superare un modello tradizionale ed arretrato, e le nuove esigenze che emergono dalla società intesa nel suo significato più complessivo.

Si può dire che attraverso gli scout, che in qualche misura diventano un fenomeno di moda, un numero rilevante di educatori e di giovani si avvicinano a valori quali quelli della vita all’aria aperta, del coraggio, dell’avventura, della responsabilità. Un modo per vivere – e non solo per leggere – le atmosfere di Salgari e Verne.
D’altro lato si scopre la natura, che non è più vista come qualcosa di ostile, ma qualcosa da conoscere, da proteggere e comunque da condividere attivamente. Sono questi i profili che, tra il 1920 ed il 1925, permetteranno ai giovani esploratori di entrare a far parte di pieno diritto della comunità nazionale, costituendo non più un gruppo di giovani stravaganti, ma una realtà di cui andare fieri; ne è prova l’interesse dei settimanali più diffusi dell’epoca, La Domenica del Corriere e La Tribuna Illustrata, che spesso dedicano la loro copertina alle imprese grandi e piccole degli esploratori nazionali, come si chiamavano allora gli scouts del CNGEI.

Infine, sotto un altro profilo, il metodo scout valorizza la responsabilità del singolo e, insieme, la responsabilità di gruppo. I giovani vengono organizzati in gruppi con un capo che è uno di loro, che deve guidarli attraverso una progressione dell’esperienza personale incentrata sul fare.
Le esperienze si devono fare perché è attraverso il fare che le cose si conoscono. Non serve saper accendere il fuoco in teoria, bisogna saperlo accendere in pratica, e solo accendendolo si acquista la padronanza necessaria per saperlo accendere in ogni circostanza, ad esempio sotto la pioggia. Un metodo, dunque, che ben riesce a coniugare la teoria e la pratica, l’essere attraverso il fare.

Complessivamente, dunque, il messaggio pedagogico dello scoutismo, inteso nella sua essenza più profonda, non è certo un messaggio conservatore, come a volte, in passato, è stato acriticamente ritenuto.
Rileva Mario Sica che nello Scautismo "si affermò progressivamente, col passare degli anni, un preciso monito ad esercitare la propria indipendenza di giudizio, a non lasciarsi trascinare da fenomeni di suggestione di massa, a scegliere secondo la propria coscienza, a battersi per ciò che si ritiene giusto" .
Se si vuole, anche il testamento spirituale di Baden-Powell, che in conclusione incita a "lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato" appare un messaggio di apertura e di speranza.
Nota ancora Sica che "la critica alla vita urbana, l’esaltazione del romanticismo della vita all’aperto, un neo-russoviano mito del buon selvaggio e dell’uomo di frontiera avrebbero potuto costituire una pura evasione se non fossero stati animati da una reale tensione verso il servizio del prossimo e della società inteso come fine ultimo della formazione scout" (4).

Si pensi ancora ai valori dell’internazionalismo e della pace, affermati con forza in anni difficili, che sembravano andare – e purtroppo andavano – in direzione del tutto diversa: eppure furono valori questi cui il fondatore prima, e la comunità internazionale scout dopo, non venne mai meno.

Quello che si può e si deve conclusivamente sottolineare, è che lo scoutismo è soprattutto (e, potrebbe dirsi, soltanto, ma questo aspetto non è sempre condiviso) un metodo educativo, e come tale non ha e non vuole avere lo scopo di modificare direttamente la società, bensì di modificarla indirettamente, attraverso la formazione dei suoi cittadini. Come tale, le istituzioni restano neutre rispetto alla metodologia educativa, che tende a migliorare la società esclusivamente dall’interno, attraverso l’educazione dei singoli, pur non appagandosi necessariamente dello status quo. E non è detto che questa soluzione non sia più efficace di altre, che spesso costituiscono soltanto delle scorciatoie per una modificazione in meglio della società, e che come tali sono destinate al fallimento. Se poi lo scoutismo sia riuscito, in passato, ad incidere complessivamente sulla gioventù italiana, non è agevole da valutare. A costo di scontentare tutti coloro che nello Scautismo hanno creduto, e l’autore di queste pagine tra di essi, non mi sentirei onestamente di dare una risposta positiva: tuttavia un’indagine seria su questo aspetto mi sembra sia mancata, e sarebbe assai utile compierla.

L’avvento della democrazia e la rinascita del movimento scout
Bisognerà attendere la fine della guerra ed il ristabilimento delle regole democratiche perché lo Scautismo, soppresso dal regime fascista, possa tornare ad essere un movimento educativo vivo nella società italiana, soprattutto – è inutile negarlo – grazie all’appoggio della gerarchia ecclesiastica che sulle orme dell’esperienza francese lo ritiene un modo di far proseliti in ambienti considerati restii a frequentare le parrocchie e gli oratori.
Si svilupperà particolarmente in questo periodo il concetto dello scout assimilato al cavaliere medioevale, con una accentuazione dei profili introspettivi del singolo, evidenziati dal rito della veglia, nella quale ci si interroga sulla propria vita e sul proprio impegno di scout: lo Scautismo non ha ancora sviluppato la propria deriva sociologica, ed insiste – direi con scarsa fortuna – sull’intimismo dell’individuo: una strada ardua che forse, se seguita con maggior determinazione, avrebbe potuto dare dei risultati migliori.
Come ha recentemente scritto Jacques Le Goff, probabilmente il più grande storico vivente, la difesa del cavaliere medioevale dell’amor cortese e dei valori ad esso sottesi, costituisce il fondamento della moderna civiltà europea (5).
Si potrebbe ipotizzare che tale itinerario, negli anni cinquanta, era un’anticipazione non ancora ben percepita dello scontro di civiltà esistente nel medioevo e ripropostosi recentemente, tuttavia ritengo che tale impostazione non portò a risultati importanti in quanto ebbe a scontrarsi rapidamente con una società che si caratterizzava prima attraverso il miracolo economico e successivamente attraverso la contestazione del ’68: due fenomeni entrambi estremamente laici, che non lasciavano alcun spazio all’introspezione.
Anche in questo caso, il pensiero laico italiano resta un fenomeno ristretto ed in qualche misura aristocratico tra le masse giovanili che si muovono in quegli anni tra la Chiesa cattolica e la contestazione marxista: una posizione certo scomoda, che a giudicare dagli esiti ultimi non sembra aver lasciato un segno significativo nella società civile.
Comunque, anche al di fuori della chiesa cattolica, che negli anni cinquanta e sessanta ha una presenza egemone nella società italiana, lo scoutismo si afferma grazie al Corpo nazionale giovani esploratori italiani, un piccolo movimento laico che però si manifesta con forza in alcune realtà significative: una di queste è Trieste, dove i giovani esploratori riescono a fondere i valori educativi propri del corpo con l’affermazione di una forte italianità: ed a Trieste vi riescono più che in altre parti d’Italia, perché lì il sintagma giovani esploratori italiani, o quello corpo nazionale hanno un significato diverso, più vivo e concreto di quanto non l’abbiano appena oltrepassato l’Isonzo.

Viezzoli, insieme ad altri scout triestini saprà cogliere quello slancio che nel dopoguerra anima Trieste, città ancora occupata e divisa, e saprà incanalarla verso obiettivi democratici e legalistici, educando i giovani al confronto ma soprattutto al dialogo. E’ proprio questa l’importanza del metodo scout applicato a Trieste ed in particolare, al suo interno, dell’insegnamento di Viezzoli: saper riconoscere la diversità, non negarla, ma dialogare con essa per valorizzarne le potenzialità. Non si tratta di parole astratte o peggio ancora vuote: chi ha vissuto a Trieste conosce sulla propria pelle che cosa vuol dire confrontarsi quotidianamente con altri popoli ed altre lingue.
Aver saputo gestire tale situazione in anni difficili è merito degli scout triestini e di una direzione illuminata del Corpo nazionale a livello locale: all’interno della sezione di Trieste Antonio Viezzoli gioca un ruolo fondamentale, e – attraverso la scuola capi – riesce a porre Trieste, di fatto, al centro della politica nazionale dell’associazione. E’ questa la sua più importante intuizione, che gli permette di valorizzare la propria esperienza educativa e di imporla sostanzialmente in tutta l’associazione, sin nelle sezioni più sperdute e più lontane da Trieste.
In tal modo la periferia si impone al centro, e la generazione che si è formata alla scuola capi di Opicina sarà quella che farà emergere l’esigenza di un nuovo statuto nei primi anni settanta, e che gestirà il rinnovamento del Corpo Nazionale a partire dal 1976, attraverso Capi che sapranno fornire continuità e sviluppo alla gestione dell’associazione.
FABRIZIO MARINELLI
1) Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982 – 1987, p. 8
2) Joyce dice che Trieste gli ricordava Dublino "quell’aria insieme patrizia e trasandata, la stessa dolce-amara melanconia, l’odore forte e acre di salmastro e catrame"
3) Gli scout, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 14
4) ibidem
5) Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa, Laterza, 2004

da Esperienze e Progetti nr 164



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