ANTONIO
VIEZZOLI UN EDUCATORE TRA TRADIZIONE E RINNOVAMENTO |
I
GIOVANI ESPLORATORI E LA SOCIETÀ TRIESTINA DEL NOVECENTO |
L’irredentismo triestino al crepuscolo dell’Impero austriaco |
Antonio
Viezzoli nasce a Trieste nel 1904. Un luogo ed una data significativi.
Ma soprattutto mia zia mi insegnò che Trieste è una città speciale, crocevia di popoli, di religioni, di lingue, dove l’italianità è un sentimento forte proprio perché tenacemente voluto, assai desiderato e sempre e comunque amato. Una italianità che non è mai deteriore nazionalismo bensì sincero legame con le proprie radici storiche, con le proprie tradizioni e con la propria lingua, che queste radici e queste tradizioni esprime e raccoglie. Per cui nascere a Trieste è già trovarsi in un mondo singolare, tra oriente e occidente, tra le rocce della Val Rosandra ed il porticciolo di Sistiana, tra la solidità della borghesia mitteleuropea e lo spirito di avventura e di intrapresa dei mercanti veneziani. Insomma, un insieme di duro lavoro e di spensierato divertimento, non disgiunto da una certa propensione al lamento ed alla nostalgia del buon tempo antico. Viezzoli
vi nasce all’inizio del secolo, quando l’Europa era ancora
ingenuamente immersa in un’epoca felice che durava da più
di trent’anni. In quei decenni, scrivono due dei più attenti
conoscitori della recente storia triestina, Angelo Ara e Claudio Magris: Nella
Trieste austriaca si respirava dunque un’aria tranquilla (2),
nonostante la polizia dell’imperatore fosse sempre pronta ad immaginare
complotti e ad incarcerare i cospiratori italiani. Ma il sentimento
irredentista degli italiani non era rivoluzionario, piuttosto era letterario,
una letteratura che tentava di esprimere pienamente il dramma esistenziale
di una generazione, ma restava pur sempre letteratura.
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La
cultura del primo novecento tra positivismo, nazionalismo e idealismo |
Il Novecento inizia
con grandi speranze: il positivismo e la scienza; l’influenza dei
popoli lontani e la concezione che l’uomo bianco ha il diritto di
portare, e più spesso di imporre, la sua civiltà; le scoperte
della medicina, che diradano le grandi epidemie e vincono la mortalità
infantile |
Lo Scautismo
laico italiano nel pensiero educativo “entre deux guerres” |
Il quadro culturale ed educativo che si è delineato permette di evidenziare il ruolo dello scoutismo quale cerniera tra una scuola che sembra non riuscire a superare un modello tradizionale ed arretrato, e le nuove esigenze che emergono dalla società intesa nel suo significato più complessivo. Si può dire
che attraverso gli scout, che in qualche misura diventano un fenomeno
di moda, un numero rilevante di educatori e di giovani si avvicinano a
valori quali quelli della vita all’aria aperta, del coraggio, dell’avventura,
della responsabilità. Un modo per vivere – e non solo per
leggere – le atmosfere di Salgari e Verne. Infine, sotto un altro
profilo, il metodo scout valorizza la responsabilità del singolo
e, insieme, la responsabilità di gruppo. I giovani vengono organizzati
in gruppi con un capo che è uno di loro, che deve guidarli attraverso
una progressione dell’esperienza personale incentrata sul fare. Complessivamente,
dunque, il messaggio pedagogico dello scoutismo, inteso nella sua essenza
più profonda, non è certo un messaggio conservatore, come
a volte, in passato, è stato acriticamente ritenuto. Si pensi ancora ai
valori dell’internazionalismo e della pace, affermati con forza
in anni difficili, che sembravano andare – e purtroppo andavano
– in direzione del tutto diversa: eppure furono valori questi cui
il fondatore prima, e la comunità internazionale scout dopo, non
venne mai meno. |
L’avvento
della democrazia e la rinascita del movimento scout |
Bisognerà attendere
la fine della guerra ed il ristabilimento delle regole democratiche perché
lo Scautismo, soppresso dal regime fascista, possa tornare ad essere un
movimento educativo vivo nella società italiana, soprattutto –
è inutile negarlo – grazie all’appoggio della gerarchia
ecclesiastica che sulle orme dell’esperienza francese lo ritiene un
modo di far proseliti in ambienti considerati restii a frequentare le parrocchie
e gli oratori. Si svilupperà particolarmente in questo periodo il concetto dello scout assimilato al cavaliere medioevale, con una accentuazione dei profili introspettivi del singolo, evidenziati dal rito della veglia, nella quale ci si interroga sulla propria vita e sul proprio impegno di scout: lo Scautismo non ha ancora sviluppato la propria deriva sociologica, ed insiste – direi con scarsa fortuna – sull’intimismo dell’individuo: una strada ardua che forse, se seguita con maggior determinazione, avrebbe potuto dare dei risultati migliori. Come ha recentemente scritto Jacques Le Goff, probabilmente il più grande storico vivente, la difesa del cavaliere medioevale dell’amor cortese e dei valori ad esso sottesi, costituisce il fondamento della moderna civiltà europea (5). Si potrebbe ipotizzare che tale itinerario, negli anni cinquanta, era un’anticipazione non ancora ben percepita dello scontro di civiltà esistente nel medioevo e ripropostosi recentemente, tuttavia ritengo che tale impostazione non portò a risultati importanti in quanto ebbe a scontrarsi rapidamente con una società che si caratterizzava prima attraverso il miracolo economico e successivamente attraverso la contestazione del ’68: due fenomeni entrambi estremamente laici, che non lasciavano alcun spazio all’introspezione. Anche in questo caso, il pensiero laico italiano resta un fenomeno ristretto ed in qualche misura aristocratico tra le masse giovanili che si muovono in quegli anni tra la Chiesa cattolica e la contestazione marxista: una posizione certo scomoda, che a giudicare dagli esiti ultimi non sembra aver lasciato un segno significativo nella società civile. Comunque, anche al di fuori della chiesa cattolica, che negli anni cinquanta e sessanta ha una presenza egemone nella società italiana, lo scoutismo si afferma grazie al Corpo nazionale giovani esploratori italiani, un piccolo movimento laico che però si manifesta con forza in alcune realtà significative: una di queste è Trieste, dove i giovani esploratori riescono a fondere i valori educativi propri del corpo con l’affermazione di una forte italianità: ed a Trieste vi riescono più che in altre parti d’Italia, perché lì il sintagma giovani esploratori italiani, o quello corpo nazionale hanno un significato diverso, più vivo e concreto di quanto non l’abbiano appena oltrepassato l’Isonzo. Viezzoli, insieme ad altri scout triestini saprà cogliere quello slancio che nel dopoguerra anima Trieste, città ancora occupata e divisa, e saprà incanalarla verso obiettivi democratici e legalistici, educando i giovani al confronto ma soprattutto al dialogo. E’ proprio questa l’importanza del metodo scout applicato a Trieste ed in particolare, al suo interno, dell’insegnamento di Viezzoli: saper riconoscere la diversità, non negarla, ma dialogare con essa per valorizzarne le potenzialità. Non si tratta di parole astratte o peggio ancora vuote: chi ha vissuto a Trieste conosce sulla propria pelle che cosa vuol dire confrontarsi quotidianamente con altri popoli ed altre lingue. Aver saputo gestire tale situazione in anni difficili è merito degli scout triestini e di una direzione illuminata del Corpo nazionale a livello locale: all’interno della sezione di Trieste Antonio Viezzoli gioca un ruolo fondamentale, e – attraverso la scuola capi – riesce a porre Trieste, di fatto, al centro della politica nazionale dell’associazione. E’ questa la sua più importante intuizione, che gli permette di valorizzare la propria esperienza educativa e di imporla sostanzialmente in tutta l’associazione, sin nelle sezioni più sperdute e più lontane da Trieste. In tal modo la periferia si impone al centro, e la generazione che si è formata alla scuola capi di Opicina sarà quella che farà emergere l’esigenza di un nuovo statuto nei primi anni settanta, e che gestirà il rinnovamento del Corpo Nazionale a partire dal 1976, attraverso Capi che sapranno fornire continuità e sviluppo alla gestione dell’associazione. |
FABRIZIO
MARINELLI |
1) Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982
– 1987, p. 8 2) Joyce dice che Trieste gli ricordava Dublino "quell’aria insieme patrizia e trasandata, la stessa dolce-amara melanconia, l’odore forte e acre di salmastro e catrame" 3) Gli scout, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 14 4) ibidem 5) Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa, Laterza, 2004 |
da
Esperienze e Progetti nr 164 |